mercoledì 5 ottobre 2022

It's the end of the world as we know it, otto anni dopo

Otto anni fa era tutto diverso. Me lo ricordo, un giovedì mattina di ottobre. All'epoca lavoravo da un'altra parte e iniziavo presto (nel senso, all'orario in cui la maggior parte della gente inizia a lavorare invece che in tarda mattinata), ma lavoravo vicino a casa, quindi andavo via poco prima. Quando finivo di prepararmi in fretta, a volte accendevo il computer e andavo a cercare notizie di Formula 1, se c'era un gran premio imminente, in modo da non dovere aspettare il tardo pomeriggio/ prima serata quando venivo a casa. Quel giovedì mattina di ottobre si faceva un gran parlare del presunto split a fine stagione tra la Ferrari e Fernando Alonso. Era successo tutto all'improvviso, che i rapporti non fossero più cordiali come ai tempi di "siete dei geni" era nell'aria, ma tutto ci si poteva aspettare tranne un addio imminente. O meglio, questo è quanto compariva dall'esterno, mentre noi eravamo ancora del tutto ignari di ciò che sarebbe accaduto, lui trattava con la McLaren e in Ferrari stava per accasarsi Sebastian Vettel.

Otto anni fa era tutto diverso, nel senso che era ancora epoca di totale alonsocentrismo. Non che chi considerava Alonso un idolo totale ai tempi abbia smesso - alcuni hanno addirittura abbandonato il loro tifo ferrarista per lui, altri si comportano da vedovi, o almeno hanno continuato a comportarsi come tali per poi diventare in seguito vedovi di Vettel - ma non parlo della tifoseria. Parlo proprio del fatto che, in quel lontano 2014, in scia agli anni precedenti, sembrava proprio passare il concetto che non potesse esistere una Ferrari senza Alonso. Per quello, quando quella sera scrissi un post su quello che stava per accadere - lo split - mi venne in mente la canzone dei R.E.M. e lo intitolai "it's the end of the world as we know it". Mi sembrava di essere di fronte a qualcosa che avrebbe segnato una grossa linea di demarcazione, che avrebbe mutato in qualche modo le dinamiche della Formula 1. Esageravo. Esageravo molto, ma a mia discolpa posso dire che esageravo come tanti altri, solo, su qualcosa di diverso.

Si faceva un gran parlare della McLaren Honda, ai tempi, la reunion tra il team e il suo storico fornitore di motori, quel binomio vincente che aveva accompagnato Ayrton Senna alla conquista di tre titoli mondiali un quarto di secolo prima. Era una novità accolta con entusiasmo, un po' come se bastasse mettere i motori Honda sulla McLaren per tornare ai fasti di un tempo. C'era anche chi si esaltava alla prospettiva che fosse Fernando Alonso - in coppia con Jenson Button, mandando Kevin Magnussen a fare altro - colui che avrebbe riscritto la storia del team, con successi a ripetizione. Io esageravo pensando che lo split tra Alonso e la Ferrari potesse stravolgere la Formula 1 (e nemmeno prendevo in considerazione l'idea che Vettel potesse lasciare la Redbull, quel giovedì sera). Altri esageravano, e di gran lunga, il fatto che la McLaren Honda sarebbe salita sul tetto del mondo strappando alla Mercedes che stava dominando la stagione il ruolo di prima della classe. La realtà era molto diversa, è un po' lo immaginavo nel mio post.


Questo era il post di quella sera e, a posteriori, un titolo esagerato ha finito per rappresentare, in maniera del tutto casuale, quello che stava davvero per succedere. Il mondo della Formula 1 che eravamo abituati a conoscere stava davvero per finire, in più di una sfaccettatura. Basta solo leggersi la classifica di oggi: in testa c'è Max Verstappen, sulla cui vettura svetta il numero 1 (non mi sembra il momento opportuno per dibattere di come sia avvenuta l'assegnazione di quel mondiale), che sta andando a prendersi un secondo mondiale (non mi sembra il caso di parlare di budget cap e delle relative polemiche in questo post), idolo degli olandesi e di una certa parte dei driverstosurvivers. Noi c'eravamo, c'eravamo quando aveva diciassette anni appena compiuti e si apprestava a scendere in pista per la prima volta in un evento ufficiale, il 3 ottobre 2014. C'eravamo quando si faceva un gran parlare del fatto che avesse solo diciassette anni e di quanto fosse un salto nel buio mettere un diciassettenne al volante di una Formula 1.

Nel mentre, quando i rumour facevano (erroneamente) il nome di Jules Bianchi come potenziale sostituto di Alonso in Ferrari, il tifone Phanfone si abbatteva sul Giappone e si avvicinavano a Suzuka le devastanti condizioni meteo di quella domenica 5 ottobre. Ventidue piloti si sarebbero allineati sulla griglia di partenza, in quella piovosa domenica d'autunno. Ventuno di loro sarebbero tornati a casa vivi. Saremmo così arrivati, ancora una volta, alla fine di quel mondo della Formula 1 che avevamo imparato a conoscere, di quel fanbase ancora spaccato in due, due generazioni di appassionati destinante irrimediabilmente a fondersi l'una all'altra. Prima di quel giorno, da un lato c'era la generazione di chi aveva già conosciuto la morte in un weekend di gara, dall'altro chi era troppo giovane per vederla come un'esperienza che in qualche modo lo toccava. C'era chi si spaventava per gli incidenti di un certo livello, chi pensava che tutto si sarebbe risolto bene sempre e comunque.

C'eravamo noi e c'erano loro, ma eravamo destinati a diventare una cosa sola. Anche noi, che tante volte avevamo sussultato in preda al terrore, convinti di avere appena assistito alla morte di qualcuno, avremmo capito che *tutto* è imprevedibile. Quella mattina, mentre guardavo il gran premio del Giappone, seduta sul letto in camicia da notte, al buio con il computer portatile sulle ginocchia, su un sito di str**ming ill*gale (diversamente da come faccio oggi che vedo sempre le gare in TV, ai tempi facevo così per le differite), avevo appena iniziato a pensare che il gran premio, tutto sommato, fosse anche abbastanza divertente. Stavo commentando la gara sul forum che modero, di fatto stavo facendo liveblogging da sola perché nessun altro stava commentando a parte me in quei momenti. Quando la pioggia aumentò e Adrian Sutil andò a sbattere, ci scherzai su, perché accadeva spesso che quello specifico pilota andasse a sbattere. In quel momento, per me, uscire di pista sotto al diluvio era semplice routine.




Molto probabilmente lo era davvero. Sutil uscì illeso dall'incidente, un giro più tardi se ne stava dietro un muretto, quando anche Bianchi uscì nello stesso tratto. Come era capitato vent'anni prima a Martin Brundle, uscito di pista in condizioni analoghe in quel punto della pista riuscendo a evitare all'ultimo un trattore che rimuoveva la monoposto incidentata di Gianni Morbidelli e investendo un commissario di percorso (che sopravvisse riportando fratture), il pilota della Marussia si ritrovò di fronte il trattore che rimuoveva la vettura di Sutil. Solo, non lo evitò, colpendolo e incastrandosi sotto. Morì dopo nove mesi di coma, ma il suo destino era già segnato fin dal momento dell'impatto. Da allora la Formula 1 ha fatto tanti passi avanti, come virtual safety car o safety car sempre presenti se ci sono trattori o bandiere rosse quando servono, ma a mio avviso sta iniziando a fare passi indietro e questo mi spaventa parecchio, se devo essere sincera, perché non ho idea di dove ci porterà.

Virtual safety car, safety car e bandiere rosse ormai sono viste solo ed esclusivamente in funzione dello spettacolo. Gli incidenti non vengono più mostrati finché non è chiaro che il pilota stia bene (al massimo viene inquadrata gente sulle tribune che balla mentre viene mandata musica dance a palla), e questo può avere i suoi lati positivi, ma la mia impressione è che si sia arrivati a una situazione in cui la "censura" può essere sfruttata a proprio vantaggio. Se qualcuno dovesse farsi male o morire, basterà non fare vedere le immagini, per non turbare gli appassionati e per non turbare i ragazzini innocenti. Così, i ragazzini innocenti, dall'alto del loro piedistallo continueranno a inneggiare alla morte degli avversari dei loro idoli o, genericamente, alla morte dei piloti che non apprezzano. Sì, il mondo della Formula 1 che conoscevamo è finito da tempo e in tanti cercano di non vedere gli strascichi di quello precedente. Otto anni sono tanti, ma non abbastanza per fingere che la storia non possa ripetersi, con altre varianti.

Se c'è una cosa che il motorsport mi ha insegnato, in trent'anni o giù di lì che seguo le competizioni, è che si può fare tanto per allontanare la morte, ma il suo spettro vi aleggerà sempre. Nessun incidente mortale sarà mai l'ultimo in assoluto. Tutto quello che il motorsport può fare è premunirsi per ritardare quello successivo il più possibile, con la consapevolezza che la sicurezza nel motorsport è come il delitto perfetto nel giallo classico: qualcosa di studiato ad arte, nel minimo dettaglio, al di sopra di ogni sospetto... poi niente, per far crollare il castello di carte basta un granello di polvere fuori posto. È quello che accadde quel giorno e che qualcuno, in cuore suo, si augura di potere provare l'emozione di vivere, anche tra i driverstosurvivers. Loro non sanno cosa si prova. Pensano che se un Ferrari junior muore basta prenderne uno che gli somiglia e inquadrarlo in penombra per avere l'illusione di non avere perso niente. Odio tutto questo, ma spero possano provare questa illusione il più a lungo possibile, perché vorrà dire che non è (ancora) morto nessun altro.


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