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sabato 31 maggio 2025

Indy 500 edizione 1969: la vittoria di Mario Andretti prima della maledizione

Prima che termini il mese di maggio, credo che sia più che opportuno andare a scoprire un'altra edizione vintage della Cinquecento Miglia di Indianapolis... e perché non andare nel 1969? Ammetto di avere deciso di scegliere proprio quell'edizione per un aneddoto a mio parere estremamente interessante, per poi andare a riscoprire che cosa sia successo in quell'evento.
In prima fila erano affiancati nientemeno che il poleman A.J. Foyt, Mario Andretti e Bobby Unser. Nelle posizioni più basse dello schieramento c'erano inoltre ben due campioni del mondo di Formula 1, Jack Brabham e Denny Hulme.
Andretti gareggiava per il team di Andy Granatelli e Clive Brawner, e ho altri due aneddoti da raccontare in proposito, uno estremamente colto e raffinato riguardo la signora Kay Brawner, uno relativo ai cazzoni che commentavano il motorsport sui social il giorno della morte di Andy Granatelli, nel lontano 2013.

All'edizione del 1969, Al Unser non ha partecipato alla gara perché si era fratturato una gamba in un incidente in moto nei giorni immediatamente antecedenti alle qualifiche. Viene considerato l'infortunio più grave avvenuto alla Indy 500 di quell'anno. Marione, invece, si è infortunato in un incidente nelle free practice, quando ha sbattuto violentemente e la macchina ha preso fuoco. Ai vecchi tempi i piloti portavano caschi aperti, quindi Andretti ha riportato abrasioni e ustioni al volto.
Questo non ha intaccato la sua presenza in gara, né la sua partenza dalla seconda piazza della griglia, ma Marione ha deciso di non prendere parte in quelle condizioni alla classica foto in cui i front runner posano accanto alle monoposto... e niente, ha mandato il gemello Aldo al posto suo a fargli da "controfigura". Trovo tutto ciò estremamente pittoresco! *-*

Copyright sconosciuto,
se lo conoscete scrivetelo nei commenti

Dopo una leadership iniziale di Andretti, durata pochi giri, Foyt è passato in testa restandovi lungamente, anche se poi a metà gara ha avuto problemi con la monoposto, rimanendo lungamente fermo ai box.
Altro contendente alla vittoria era Lloyd Ruby, che tuttavia è stato messo out da un incidente durante il rifornimento, quando come un Felipe Massa qualsiasi per le strade di Singapore è stato fatto ripartire con il bocchettone della benzina ancora attaccato alla vettura!
Andretti si è ritrovato con un vantaggio abissale nei confronti degli inseguitori e nemmeno rischiare di finire a muro e investire Brawner nell'ultima sosta hanno potuto mettere fine ai suoi sogni di gloria. È andato a vincere con due minuti di vantaggio nei confronti del secondo classificato, Dan Gurney su Eagle, mentre Bobby Unser con la Lola ha completato il podio.

I soci Granatelli e Brawner hanno diviso le proprie strade un anno più tardi e, quando Marione si è schierato dalla parte di Granatelli, la moglie di Brawner non è che l'abbia presa molto bene! Secondo una leggenda metropolitana, la signora Kay avrebbe lanciato una maledizione contro la famiglia Andretti. Mario non ha mai più vinto la Indy 500 nonostante abbia continuato a gareggiare fino agli anni '90 e anche i suoi discendenti non ci sono riusciti, nonostante in alcune occasioni ci siano andati vicini.
La più clamorosa risale forse al 2006, quando il figlio Michael e il nipote diciannovenne Marco erano 1/2 nelle fasi conclusive della gara. Michael è stato il primo a perdere la posizione per opera di Marco, ma poi entrambi sono stati superati da Sam Hornish Jr, nel caso di Marco il sorpasso è avvenuto nell'ultimo giro.
Andy Granatelli è morto all'età di novant'anni il 29 dicembre 2013. Ricordo qualche simpaticone sui social che tacciava chi parlava dell'incidente sciistico di Michael Schumacher - avvenuto lo stesso giorno - ma non della carriera di Granatelli di essere Formula 1-centrico quindi ignorante quindi indegno di essere ascoltato.


venerdì 30 maggio 2025

Indy 500 edizioni 1965 e 1966 // Indianapolis ai tempi di Clark e Hill

Ai vecchi tempi la Cinquecento Miglia di Indianapolis non si svolgeva nel Memorial Sunday, quanto piuttosto il 30 maggio. Se il 30 maggio cadeva di domenica, la gara veniva disputata il giorno successivo, il 31 maggio, che di conseguenza era l'ultimo lunedì di maggio, quindi il Memorial Day. Oggi intendo parlare delle edizioni del 1965 e 1966, la prima delle quali si è svolta il 31 maggio, mentre l'altra invece è stata disputata il 30.
Qualora siate interessati a vederli, vi informo che su youtube si trovano degli highlight, che mi sono guardata per entrambe le edizioni, scoprendo tra l'altro che in quella del 1965 facevano la prima apparizione nientemeno che Mario Andretti e Al Unser. Quest'ultimo aveva compiuto ventisei anni il giorno precedente alla gara, peraltro.


Come importante cambio regolamentare rispetto alla stagione precedente è stato imposto l'obbligo di effettuare due pitstop. Per quanto la decisione sia avvenuta per ragioni di sicurezza legate al quantitativo di carburante imbarcato, non ha potuto fare a meno di strapparmi una risata!
A.J. Foyt, tornato alle competizioni dopo un serio incidente qualche mese prima, ha conquistato la pole position precedendo Jim Clark, Dan Gurney e Marione... niente male come concorrenti, specie nella prima parte della griglia. A inizio gara c'è stato un accenno di duello Foyt vs Clark, ma poi è stato lo scozzese a prendere stabilmente la testa della gara.
Ha effettuato solamente due rifornimenti di carburante nel corso della gara, entrambi piuttosto rapidi e senza intoppi. Ha lasciato la testa della gara solo in occasione di una sosta e successivamente è rimasto in prima posizione, in una gara senza grossi incidenti, a parte quello di Bud Tingelstad.


L'incidente è stato innescato quando una ruota si è staccata dalla macchina, facendolo uscire di strada. La vettura mi ha colpito perché, nel vederne le immagini, vi ho accidentalmente letto a primo impatto "Red Bull", invece di quello che vi era scritto effettivamente, ovvero "Red Ball".
Clark frattanto, come anticipato, era ancora in testa alla gara e vi è rimasto fino al momento della bandiera a scacchi, vincendo al volante della Lotus, con quasi due minuti di vantaggio sul secondo classificato, Parnelli Jones, su Kuzma, attardato anche dalla fine del carburante, riuscendo appena a vedere il traguardo.
Marione, su Brawner, ha conquistato la terza piazza, dopo essere stato per tutta la gara tra le prime posizioni e venendo proclamato Rookie of the Year.


Un anno più tardi, alla 50^ edizione della gara, Andretti ha conquistato la pole position, anche se poi si sarebbe ritirato in corso d'opera, mentre Clark partiva dalla seconda piazza, dopo la vittoria dominante dell'anno precedente. Il via della gara è stato abbastanza caotico, un po' stile Formula 2 a Montecarlo 2025, con sedici vetture coinvolte in un incidente e undici incapaci di ripartire.
Nessun pilota è rimasto ferito nell'incidente, ma Foyt si è infortunato a una mano mentre si allontanava scavalcando una rete. Pare che uno spettatore sia stato colpito da una ruota, ma non si hanno notizie su cosa ne sia stato di lui. C'è stata una bandiera rossa e un redflag delay di quasi un'ora e mezza.
Tra i leader di lunga durata ci sono stati Lloyd Ruby e poi nientemeno che Jackie Stewart, poi costretto al ritiro a pochi giri dalla conclusione. A ereditare la leadership è stato il rookie Graham Hill, che ha vinto precedendo Clark con un vantaggio abbondante, gareggiando al volante di una Lola.


Attenzione, però, che il *drama* non è mancato, perché in casa Lotus erano convinti che Clark fosse in testa! Nello specifico, considerando che ai tempi le posizioni erano indicate in maniera più rudimentale, pensavano che al momento in cui Clark aveva tagliato il traguardo del 200° giro, Hill fosse quasi un giro più indietro e ne avesse completati 199, nonostante Jim avesse superato indenne due diversi testacoda che gli avevano fatto perdere tempo in precedenza.
Esistono diverse scuole di pensiero su cosa possa essere accaduto e la teoria più plausibile è che, in occasione del secondo incidente di Clark, il team non abbia visto Hill che lo sopravanzava. Altre, più estrose, sostengono che un passaggio di Clark non sia stato conteggiato, attribuendolo al compagno di squadra Al Unser immediatamente dopo che questo era uscito per incidente. Una teoria contrapposta è che in casa Lotus abbiano conteggiato erroneamente un giro di Unser come se fosse di Clark.
Colin Chapman non ha mai fatto ricorso e, stando a quanto ho letto su Forum Autosports, sembra esistano foto di Clark che prendeva parte ai festeggiamenti di Hill, quindi deduco che credessero nella vittoria del loro avversario e, ancora più importante, l'accaduto non ha intaccato lo status di best friends forever degli Hillark. <3




giovedì 31 ottobre 2024

In ricordo di Greg Moore (22.04.1975 - 31.10.1999)

Venticinque anni fa, il 31 ottobre 1999, lo stesso giorno in cui in Giappone era terminato il campionato di Formula 1, negli States si è conclusa la stagione di CART, in cui ugualmente l'hot topic avrebbe dovuto essere l'assegnazione del titolo, che tra parentesi è stato assegnato a Juan Pablo Montoya, per maggiore numero di vittorie essendo questo a pari punti con Dario Franchitti. Purtroppo quel finale di stagione a Fontana è passato alla storia non per lo scontro per il titolo, ma per la tragica morte del pilota canadese Greg Moore. Pilota del team Forsythe, con il quale aveva esordito nel 1996 nella CART (nella stagione in cui c'era stato lo split con la IRL) dopo avere dominato il campionato di Indylights, per il 2000 avrebbe dovuto passare alla Penske. C'erano stati dei rumour, qualche anno prima, su un ipotetico passaggio in Formula 1 con la McLaren, proprio al posto di Mika Hakkinen, che ha vinto il suo secondo mondiale proprio in quel giorno.

La partecipazione di Moore alla gara di Fontana era stata in dubbio - non aveva nemmeno disputato le qualifiche, infatti poi è partito dal fondo dello schieramento - in quanto nei giorni precedenti aveva avuto un incidente nel paddock: mentre era a bordo di un motorino era stato investito da un mezzo, infortunatosi a una mano, tanto che gli erano stati messi diversi punti di sutura e aveva anche riportato una frattura.
L'incidente mortale è avvenuto nella prima parte della gara, quando dopo avere perso il controllo della monoposto è uscito di pista con un violento schianto che ha portato a una serie di cappottamenti. Poco prima il pilota Richie Herns aveva avuto una simile uscita di pista nello stesso punto, ma la vettura non si era ribaltata e ne era uscito illeso.
Temendo che l'incidente di Moore fosse stato causato da un guasto tecnico, Forsythe ha ritirato la vettura del suo compagno di squadra Patrick Carpentier. Successivamente la causa dell'incidente sarebbe stata attribuita a un concatenarsi di fattori, tra cui il terreno bagnato fuori dalla pista, che in seguito sarebbe stato asfaltato per ragioni di sicurezza.
La gara è proseguita con la vittoria di Adrian Fernandez, che già non era nuovo a tragedie, avendo conquistato la sua prima vittoria nella categoria a Toronto nel 1996, nella gara in cui erano morti Jeff Krosnoff e una commissaria di percorso. Nel 1998, inoltre, era stato protagonista di un tragico incidente nel Michigan, a seguito del quale erano deceduti tre spettatori.
La morte di Moore è stata annunciata nel corso della gara. Il decesso è stato dichiarato alle 13.21 ora locale, ma fin dal primo momento l'esito dell'incidente era stato chiaro.

Nato il 22 aprile 1975, Greg Moore aveva solo ventiquattro anni. Nella sua breve carriera in CART ha conquistato cinque vittorie, che numericamente rappresentano solo in piccola parte il suo talento. La sua prima vittoria è avvenuta nel 1997, seguita da una seconda nella gara immediatamente successiva. Anche nel 1998 ha conquistato due vittorie, una delle quali a Rio, dopo il sorpasso su Alex Zanardi a seguito del doppiaggio di Arnd Meier, che vedete immortalato negli screenshot sottostanti. Zanardi (vettura rossa) era in testa seguito da Moore (vettura blu) quando si sono ritrovati davanti Meier (vettura gialla), rimasto nell'immaginario collettivo per le sue doti di chicane mobile, nonostante in certi momenti della sua carriera non fosse neanche stato così terribile: nella Formula 3 tedesca aveva concluso secondo dietro a Jarno Trulli e aveva battuto un compagno di squadra rispettabile come Nick Heidfeld.
Zanardi è uscito in testa dal doppiaggio, ma Moore ha deviato dall'altro lato, per poi superare Alex dall'esterno. Esistono immagini del post gara in cui quest'ultimo è andato a protestare animatamente con Meier per averlo ostacolato.




Per Greg, il 1999 è iniziato con una vittoria nel primo evento della stagione, alla quale tuttavia non ne sono seguite altre, a causa della poca competitività della vettura. La sua morte è avvenuta a soli cinquanta giorni di distanza da un altro incidente mortale, quello di Gonzalo Rodriguez, esordito a stagione in corso con Penske, proprio la stessa squadra per la quale Moore avrebbe dovuto gareggiare nel 2000. Per il sedile vacante sarebbe stato successivamente ingaggiato Helio Castroneves, che sarebbe rimasto con Penske full time fino al 2017 e in seguito part time fino a Indianapolis 2020.



domenica 21 giugno 2020

Seconda chance

"La faccenda si stava mettendo nel migliore dei modi. Restava la sosta. Entrai ai box temendo che potesse succedere qualcosa, un po' come a Toronto. Non per colpa dei ragazzi, ma sono cose che capitano: ruote bloccate, bocchettone del serbatoio che non si apre e così via. Invece, quando vidi la mano del mio capo meccanico Donnie che si alzava facendomi segno di partire, scattai senza far spegnere il motore e mi dissi: è fatta, non mi ferma più nessuno. E invece non era fatta un cacchio."
- Alex Zanardi (citazione della sua autobiografia "Però, Zanardi da Castel Maggiore" sul suo incidente in Indycar)

Quando uscivamo da scuola, c'erano due diverse fermate dell'autobus quasi equamente distanti dalla scuola. Molti sceglievano di andare a quella che l'autobus faceva per prima. Prima entravi e più era probabile trovare un posto a sedere. Andando a quella che l'autobus faceva per seconda, era stipato di gente anche se molti abitavano a poche fermate di distanza dalla scuola e prima ancora di metà percorso scuola-casa mia si trovava posto.
Io non andavo molto d'accordo con alcune delle persone che andavano alla prima fermata, tanto che l'avevo ribattezzata "fermata della gentaglia", mentre avevo un'amica che abitava, nei primi anni delle superiori, poco distante dalla seconda fermata. Facevo la strada con lei, mi fermavo lì dove dovevo prendere l'autobus e lei andava a casa.
Poi in terza superiore arrivò Alessia. Si era trasferita da un altro indirizzo della stessa scuola e prima la conoscevo solo di vista. Divenne la mia compagna di banco e spesso e volentieri facevamo la strada insieme. Andavamo all'altra fermata e, quando percorrevamo il portico di via Bondanello, passavamo davanti alla sede dell'AVIS. C'era un cartello con una foto di Alex Zanardi, che era il testimonial dell'AVIS di Bologna. Alessia non sapeva niente di motorsport, era l'ultimo dei suoi interessi, eppure sapeva chi fosse. Non c'era nessuno che non lo sapesse.

Ricordo che scoprii della sua esistenza nel 1998. Aveva già corso in Formula 1 in passato, ma quando ero troppo piccola per ricordarmi di qualcuno che non fosse Senna o Alesi (o Berger o Schumacher o Hill, altri piloti a quei tempi proprio non avrei saputo nominarli). Ai pranzi della domenica dai nonni a volte capitava di guardare la Formula 1 e una volta mi capitò di giocare all' "impiccato" (non so se si chiami così anche nelle altre zone d'Italia, comunque intendo quel gioco in cui si deve far indovinare una parola mettendo i - come consonanti e i + come vocali) con mia zia mettendoci dei nomi di piloti.
L'interesse per la Formula 1 era a livelli di "teniamo accesa la TV e poi parliamo dei fatti nostri", ma anche se alla lontana faceva parte della nostra domenica. Un giorno, mentre parlavamo della Ferrari, mia zia mi chiese: "lo sai che l'anno prossimo verrà in Formula 1 un pilota di Castel Maggiore?"
Le assicurai che avrei tifato per quel pilota che aveva vissuto in passato nello stesso paese in cui abitavano i miei zii, ma non mantenni fede a quanto avevo affermato. Il 1999 era un'epoca in cui ero troppo fissata con Hakkinen, Irvine e la gamba fratturata di Schumacher per prestare attenzione a Zanardi.

Poi un giorno di settembre del 2001, mio padre venne a casa e disse che aveva sentito dire che Zanardi, correndo "in America" aveva avuto un grave incidente e in ospedale avevano dovuto amputargli le gambe. Non era andata esattamente così. Correva in Formula CART, ma l'incidente non era successo in America. E soprattutto non avevano dovuto amputargli le gambe: quelle se n'erano andate con il musetto della sua vettura dopo che era stato centrato in pieno durante la prima gara di Indycar avvenuta in Europa.
Per ironia della sorte, quella gara aveva rischiato di essere annullata. Quel weekend tutto lo sport americano era fermo dopo gli attentati di New York. Per il fatto che si corresse all'Eurospeedway in Germania, la gara venne disputata regolarmente. Anche se, se non vado errata, anche le condizioni meteo avevano rischiato di farla saltare.
Sempre per ironia della sorte, il ritorno di Zanardi negli States non era stato così eccezionale: nel team di Morris Nunn non stava ripetendo gli stessi risultati che l'avevano portato a vincere due titoli con Ganassi nel 1997/98, eppure, proprio quel giorno, insieme al suo compagno di squadra, un giovane Tony Kanaan, era nella posizione ideale per puntare alla vittoria. Poi accadde quello che tutti sappiamo: dopo l'ultima sosta ai box, finì in testacoda e una delle vetture che sopraggiungevano non riuscì a evitarlo.

Pochi anni più tardi, sotto i portici delle strade di Castel Maggiore, nel tragitto che portava dall'istituto tecnico commerciale alla fermata degli autobus che avrebbero portato me e Alessia alle nostre rispettive case nei nostri paesini di periferia, a volte capitava di nominarlo, quando vedevamo la sua foto. Fu Alessia, proprio Alessia, quella che non sapeva nulla di motorsport, a raccontarmi alcuni aneddoti sulla famiglia di Zanardi che, quando lessi la sua autobiografia (la prima, quella che parlava della sua giovinezza e della sua carriera di pilota in Formula 1 e Indycar), si rivelarono esatti.
Per anni, ogni volta in cui capitava di nominarlo in qualche discorso, c'era qualcuno che sapeva dove abitasse sua madre, dove abitasse sua nonna (fun fact, la nonna di Zanardi abitava poco lontano dai miei zii), in quali posti andasse Zanardi quando era dalle parti di Bologna... Avere un amico di un amico di un amico i cui genitori erano conoscenti di Zanardi era considerato un motivo di vanto e, ai tempi, in realtà, Zanardi non era ancora quello a cui siamo abituati di ora. Era semplicemente il pilota che aveva perso le gambe "correndo in America"...

Mi spiego meglio: da nerd della Formula 1 quale sono, solo durante una visita alla sede dell'AVIS di Castel Maggiore fatta con la scuola indicativamente nel 2006, vedendo una cornice con una foto di Zanardi al volante di una monoposto di Ganassi e leggendo nella didascalia che aveva vinto due titoli in Indycar scoprii che era stato molto di più e che non si dava nessun peso al fatto che fosse stato l'unico italiano campione di Indycar della storia. Di fatto nessuno, dalle nostre parti, se lo fila per la sua carriera di pilota. Quello che è stato dopo, campione paralimpico in handbike, invece, è sotto gli occhi di tutti ed è quello che ha portato persone anche non appassionate di motori, e non più solo dalle nostre parti ma in tutta Italia, a considerarlo un personaggio importante dello sport italiano.
Ai nostri occhi, Zanardi è una fenice risorta dalle proprie ceneri, che ha saputo ispirare tante persone, non necessariamente appassionati di sport, non necessariamente appassionati di automobilismo o di ciclismo. Ha fatto capire a molti che nella vita esistono seconde chance e credo che sia per questo che è entrato nel cuore anche di gente a cui non importa un fico secco di nessuno dei due sport nei quali ha gareggiato.

Qualsiasi cosa ne pensino quelli che hanno criticato la cosa, ha il suo senso che da due giorni sia nelle notizie di apertura del telegiornale, dopo un grave incidente che gli è capitato durante una staffetta di handbike a Siena, nella quale è uscito di strada andando a schiantarsi contro un camion nella corsia opposta, evento a seguito del quale ha dovuto subire un intervento chirurgico per i traumi cranici e facciali riportati e si trova in coma farmacologico, senza certezze su quello che sarà il suo futuro, se ne avrà uno.
Ha il suo senso anche che tanti, tra di noi, siano in apprensione per le sue condizioni di salute, dopo tutto quello che gli è successo e dopo che, nel 2001, è sopravvissuto a un incidente che lasciava ben poche speranze. Ha il suo senso che noi appassionati di motorsport ci chiediamo come sia possibile che, non per la prima volta, ci ritroviamo di fronte a un pilota che sta rischiando la vita per qualcosa di molto meno pericoloso di quello che accadeva in pista. Non è un'idea facile da accettare, perché su certe cose ti metti il cuore in pace e su altre molto meno.

Diversamente da altre persone che vivono dalle mie parti, non ho mai incontrato Alex Zanardi. Però mi è stato riferito, da più di una persona, che quando viene a trovare i suoi parenti che abitano vicino a Bologna se ne va in giro in handbike in certi posti della zona. Più di una volta, nel corso degli anni, mi è capitato mentre andavo a lavorare di incrociare un tipo che se ne andava in giro in handbike. Non ho la più pallida idea di chi fosse. Poteva essere lui, così come non esserlo. Questo pensiero lo rende ai miei occhi molto più "persona comune", nonostante tutto.
Gli auguro tutto il meglio possibile, perché è stato una grande fonte di ispirazione per tutti, perché la sua storia ha dato speranze a persone che pensavano di non averle e perché glielo devo, dopo non averlo mai preso in considerazione quando ero bambina e quando lui correva per la Williams.
È stata la sua autobiografia a farmi appassionare fino in fondo alla Indycar e farmi sentire una sorta di vicinanza con lui, un po' di rimpianto per avere scoperto solo nel 2012/13 il suo glorioso passato motoristico. Del resto non ne so granché, ma mi basta per sentire che devo sperare.

venerdì 29 maggio 2020

L'ascesa di Danica Patrick quindici anni dopo

Il 29.05.2005 era il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Erano i tempi in cui non c'erano cambi gomme in Formula 1 e in cui Kimi Raikkonen forò e andò a sbattere a pochi giri dalla fine mentre tentava di arrivare al traguardo nonostante una gomma si stesse ormai squarciando. Era il GP d'Europa al Nurburgring e lo vinse Fernando Alonso su Renault. Causa anni bisestili venuti in mezzo, era la prima volta dal 1994 che il mio compleanno cadeva di domenica. Quella sera dovevo andare a cena in una pizzeria vicino casa insieme alle mie amiche di scuola. Siccome eravamo ancora minorenni, per evitare che sorgessero problemi di sorta avevo preso due accortezze: 1) i miei genitori avrebbero cenato nella stessa pizzeria in un tavolo interno mentre noi eravamo sotto la tettoia, 2) saremmo rimaste lì finché le due invitate non fossero state venute a prendere dai rispettivi genitori.
Erano tempi diversi, non mi preoccupavo del fatto che, oltre al GP d'Europa, ci fosse un mondo. Ricordo che cercai di parlare di motori con le invitate, ma con poco successo. Una delle due disse che considerava Michael Schumacher un uomo attraente. Non ero propriamente d'accordo con lei, ma nevermind!

Mentre noi eravamo là, a cena sotto la tettoia della pizzeria, si consumava una pagina che avrebbe potuto condizionare la storia del motorsport e renderlo diverso da quello che è ora. Dall'altra parte dell'oceano, come ogni Memorial Sunday che si rispetti (2020 escluso) si stava svolgendo la Cinquecento Miglia di Indianapolis.
È una delle gare più storiche e importanti al mondo, una di quelle che all'occorrenza potevano catalizzare l'attenzione anche qui, in Europa, dove ai tempi non avevamo molti mezzi e fonti per seguire la Cinquecento Miglia di Indianapolis.
Quella era proprio una di quelle occasioni e, a undici giri dalla fine, la storia dell'automobilismo avrebbe potuto cambiare per sempre.
Si usciva da un periodo di neutralizzazione dietro la safety car e, al momento della bandiera verde, la vettura che si trovava in seconda posizione, fece uno scatto felino per prendersi la testa della gara. Il pubblico urlava e si alzava in piedi, perché stava assistendo, comunque fosse andata, a un evento storico.
Per la prima volta in 90+ anni di storia, a undici giri dalla fine, una donna era una seria concorrente per la vittoria.

Quella donna era Danica Patrick, una ragazza di 23 anni, originaria dell'Illinois. Autrice di vari piazzamenti a podio nelle categorie minori americane e di buoni risultati in classifica, era una rookie appena arrivata in Indycar, che si era qualificata quando qualcuno l'aveva già data per spacciata.
Di lei i giornali avrebbero scritto che era sposata con il suo fisioterapista e che metteva sempre il rossetto per scaramanzia quando doveva gareggiare. Insomma, cose non troppo utili per capire che cosa fosse accaduto in pista, ma penso che, per un bene maggiore, si possa soprassedere.
Danica Patrick era la stessa che una decina d'anni più tardi sarebbe stata citata come esempio dell'insuccesso delle donne nel mondo dell'automobilismo, la sua poca simpatia, la sua lunga parentesi poco positiva in NASCAR e il fatto che l'essere donna le avesse aperto più strade che a un uomo di simili performance eletti come prova della sua incapacità al volante. Non si sprecavano articoli trash con liste di donne più vincenti di lei, incluse magari delle dilettanti che avevano vinto una gara per maggiolini d'epoca alla sagra parrocchiale di un borgo di campagna.

Se c'è una verità per ognuno di noi, la verità di molti di noi è che quel 29.05.2005 una ragazza che non era una pluricampionessa ma che se la sapeva cavare era nelle posizioni di testa di una delle gare automobilistiche più importanti e fascinose al mondo e che avrebbe potuto seriamente vincerla, se qualcosa fosse andato in un'altra maniera.
Non era stata la sua migliore gara e aveva potuto sfruttare episodi fortunati per arrivare fino a lì, ma se fosse stata Helio Castroneves o Juan Pablo Montoya o qualsiasi altro pilota considerato rispettabile ci si sarebbe piuttosto focalizzati sulla sua capacità di rovesciare un destino avverso.
Il destino avverso, comunque, era dietro l'angolo ed era rappresentato dalla spia del carburante, che non era abbastanza per arrivare in fondo con quella velocità.
A pochi giri dalla fine, la Patrick si arrese, venendo sopravanzata da Dan Wheldon, poi vincitore (ironia della sorte  anche nel 2011 e sempre il 29 Danica avrebbe leaderato qualche giro nelle fasi finali dell'altra Indy vinta da Wheldon), e da altri due piloti. Il quarto posto le valse un trafiletto su La Repubblica, di cui veniva distribuita una copia nelle classi a scuola da me ai tempi delle superiori per educare noi studenti alla lettura del giornale, e probabilmente su altri giornali.

Voci di corridoio raccontano (non so se sia vero o no) che avrebbe avuto carburante a sufficienza per mantenere la leadership, ma che un'avaria dell'indicatore abbia invece indicato il contrario. Ad ogni modo, forse le cose avrebbero potuto andare diversamente se la Patrick avesse fatto quello che hanno fatto in altre occasioni anche altri piloti: fregarsene del carburante che scarseggiava, perché la Indy 500 è una gara in cui non fa differenza arrivare al quarto posto, arrivare ventesimi per avere dovuto rifornire a due giri dalla fine oppure fermarsi senza benzina lungo la pista all'ultimo giro.
Non so precisamente cosa sarebbe successo se quel giorno, invece di limitarsi a mettersi in mostra, Danica fosse riuscita a vincere, ma ho la sensazione che qualcosa, per le donne del motorsport, sarebbe cambiato molto più profondamente di quanto possa succedere adesso. Perché Danica Patrick è arrivata più in alto di chiunque altra e già questo aveva, a suo tempo, aperto le porte a molte ragazze, ma i numeri avrebbero contato di più: una vittoria a Indy sarebbe stata molto di più di quella vittoria a Motegi che ha ottenuto e che viene spesso screditata (perché c'erano 18 vetture in pista invece che 24!!11!!!1!! - di fatto mancavano Will Power, Justin Wilson e una manciata di signori nessuno che molti non saprebbero neanche nominare).

Forse non ci sarebbe bisogno di un campionato femminile per promuovere le donne nel motorsport. Forse non ci sarebbero donne che affermano che gli uomini sono più forti delle donne mettendo se stesse come eccezione. Forse non ci sarebbero nemmeno donne che affermano che gli uomini sono più forti per giustificare i propri fallimenti.
Ci sarebbero anche lati negativi, per esempio nessuno farebbe complimenti spropositati a una ragazza per essere arrivata terzultima, sostenendo che sia stato un risultato di spessore. Però, ad ogni modo, qualcosa sarebbe cambiato e forse non avremmo l'impressione che, nel 2020, ci sia addirittura meno apertura mentale al motorsport al femminile di quanta non ce ne fosse nel 2005... il che, comunque non mi sorprende.
Danica Patrick ha avuto anche una personalità abbastanza dirompente, come pilota, era una che sapeva rispondere a tono, che sfruttava il proprio potenziale di marketing ma che non avrebbe mai lasciato passare il messaggio che i suoi risultati fossero il massimo ai quali poteva ambire.
Se fosse arrivata quindicesima in una gara in cui Dario Franchitti arrivava sedicesimo, non si sarebbe andata a vantare davanti alle telecamere di avere battuto un campione o di avere lottato alla pari contro di lui. Avrebbe detto che non era il risultato a cui ambiva, oppure si sarebbe inventata una scusa, come qualsiasi altro pilota: un messaggio che possiamo dare per scontato, ma che spesso non viene fatto passare dalle ragazze del motorsport di oggi.


giovedì 28 maggio 2020

CART the Platinum Days: Indianapolis 500 1995

Il 28 maggio di venticinque anni fa a Indianapolis si svolgeva l'ultima Cinquecento Miglia prima dello split, con ancora i piloti della CART, insomma, quelli che venivano presi sul serio, anche se alcuni erano sempre gli stessi.
Era passata una settimana dal drama, quello occorso quando al bump day erano usciti di scena anche alcuni piloti di un certo spessore, come Emerson Fittipaldi e Al Unser Jr.

Scott Brayton partiva dalla pole position, con Arje Luyendyk e Scott Goodyear a completare la prima fila.
Non è stata una gara facile, non è stata una gara iniziata bene, c'è stato un pile-up al via, chi ci ha rimesso di più è stato Stan Fox che ha riportato un grave trauma cranico e un infortunio di lunga durata che ha messo fine alla sua carriera di pilota.
Fuori anche Eddie Cheever, Lyn St James e Carlos Guerrero. Dieci giri dietro la safety car, con Goodyear in testa, poi rimpiazato da Luyendyk al restart.

Dopo un breve periodo di calma, c'è stata una safety car per detriti. Un giovane pilotino dall'aria smarrita non si è reso conto di essere in testa, in quel momento, e ha superato la safety car pensando di doversi accodare dietro ad altre vetture.
Quel giovane pilotino era destinato ad affrontre diverse peripezie, compreso un pitstop in cui per poco non usciva con il bocchettone della benzina ancora inserito, poi è anche stato penalizzato di due giri per la questione del sorpasso alla safety car. Sembrava destinato all'oblio... e invece ci occuperemo di lui più tardi.

Fuori Michael Andretti mentre era in testa, fuori anche Scott Sharp, dentro la safety car, fermo André Ribeiro, dentro di nuovo la safety car... questo, in realtà, è successo in 60/70 giri di gara (mentre perdevamo per la strada nell'anonimato Buddy Lazier come tanto anonimamente avevamo perso per strada un certo Eric Bachelart), nel corso dei quali il pilotino di prima in un modo o nell'altro è tornato a pieni giri: niente male.
Nel frattempo Mauricio Gugelmin era in testa, ha passato in testa oltre un quarto di gara, ma un problema tecnico di Paul Tracy e dei suoi occhiali da secchione ha rimescolato, con una nuova safety car, le carte in tavola: Jimmy Vasser, Scott Pruett e Scott Goodyear erano la top-3, anche se le cose cambiavano un po' per via di pitstop in regime di green flag.

Ad ogni modo un incidente di Davy Jones e la suddetta safety car sono state clementi con Vasser, che era ancora in testa quando le cose si sono stabilizzate. Almeno fino al momento in cui non è andato a sbattere lui stesso lasciando gli Scott^2 a contendersi la prima posizione.
Goodyear ha avuto la meglio su Pruett, che poi è finito a muro a sedici giri dalla fine. A quel punto è accaduto l'inverosimile: Goodyear era in testa dietro la safety car quando questa si apprestava a rientrare in pitlane a dieci giri dalla fine.
Aveva già rallentato, ma era ancora lì, quando Goodyear ha fatto un sorpassone like a boss sulla safety car mentre tutti rallentavano. WHAT. THE. F*CK?! Penso che questo sia stato il modo più assurdo di mandare in vacca una potenziale vittoria.

Molto stranamnte è stato penalizzato per l'accaduto, anche se poi la cosa ha suscitato molte polemiche.
Goodyear doveva scontare uno stop and go che non ha scontato su istruzione del team e ha proseguito così, in testa alla gara, anche se a cinque giri dalla fine i suoi giri hanno smesso di essere contati, un po' come se fosse stato blackflaggato, senza tuttavia essere blackflaggato. Il leader della gara era, ufficialmente, a quel punto, proprio il pilotino dall'aria smarrita che era stato penalizzato di due giri molto tempo prima per avere superato la safety car ed era risalito a pieni giri già da molto tempo. Quel pilotino dall'aria smarrita era destinato a diventare il primo (e ad oggi unico) canadese a vincere la Indy 500, oltre che in seguito l'unico canadese a vincere il mondiale di Formula 1.

Immagino avrete capito (forse anche dal titolo anche se non era ancora l'epoca della tinta) che a vincere quella Cinquecento Miglia è stato Jacques Villeneuve, Rookie of the Year dell'anno precedente in cui si era classificato secondo. E, plot twist, era al volante di una vettura numero... 27 (frutto o di una casualità o di una scelta mirata del team Green, neoentrante in quella stagione, dato che i team hanno numeri fissi e che quel 27 resiste anche ai giorni nostri nel team Andretti, che è subentrato a Green).
Christian Fittipaldi e Bobby Rahal hanno completato il podio, con Eliseo Salazar, Robby Gordon, Mauricio Gugelmin, Arje Lujendyk, Teo Fabi, Danny Sullivan e il grande eroe Hiro Matsushita a completare la top-10.
Alessandro Zampedri, Roberto Guerrero e Bryan Herta hanno preceduto Scott Goodyear classificato quattordicesimo, davanti a gente indietro di diversi giri, ovvero Hideshi Matsuda, Stefan Johansson, Scott Brayton e André Ribeiro (che evidentemente era ripartito dopo le sue peripezie).


giovedì 31 ottobre 2019

Le due facce del 31/10

Sabato 30 Ottobre 1999 - è un sabato come tanti, la prima media è iniziata da poco più di un mese, mi preparo per andare a scuola mettendomi gli indumenti che mia madre mi ha tirato fuori dall'armadio.
Indosso una felpa rossa, la mia felpa preferita, che però oggi mi fa pensare al mondiale che sta finendo.
È sabato e, diversamente dagli altri giorni, in cui mio padre mi accompagna a scuola che è di strada mentre va al lavoro, è mia madre che mi porta a scuola. Arrivo un po' in anticipo, mi fermo un po' a parlare con le mie due amiche delle elementari, rispettivamente la mia migliore amica a vent'anni di distanza e una che non vedo più da una vita e che non mi ricambierà nemmeno il follow su instagram (con il mio profilo in incognito, insomma, quello che uso per seguire amici, colleghi e conoscenti).
E. mi chiede: "Ti sei vestita di rosso perché speri che Schumacher vinca?"
G. interviene: "No, perché spera che vinca Irvine, che è più bravo e più bello".

Domenica 31 Ottobre 1999 - è domenica e la gara è stata a orari proibitivi. Mia mamma mi fa preparare per andare a catechismo e purtroppo sono lontana dalla fonte di informazioni, un ex compagno di scuola delle elementari fanatico al cubo che ha visto la gara alla mattina.
Per tutta la mattina ripeto a E. che non vedo l'ora di scoprire com'è andato a finire il campionato. E. mi risponde che ha sentito il TG e che il mondiale non l'ha vinto Schumacher. Grazie al cavolo, non era lui il pilota che lottava per il mondiale.
Al pomeriggio faccio il mio dovere di hater della McLaren e ne deduco che è un giorno terribile per il motorsport, che il Malehhhh Assolutohhhh ha vinto un'altra volta, il tutto con la mentalità di una persona felice per il fatto che Barrichello avrebbe preso il posto di Irvine (informazione di cui non ero al corrente al momento, ma che mi avrebbe resa molto contenta nel prossimo futuro).

È il 31 Ottobre e, quando arriva la sera, ho davanti due giorni di vacanza. Tornerò a scuola soltanto mercoledì.
Di motori non se ne parlerà fino a marzo, anche se ogni tanto ci proverò.
Però abbiamo il paraocchi, vediamo solo ciò che conosciamo. Nella mattina europea del 31 Ottobre, Mika Hakkinen vince il suo secondo mondiale a Suzuka. Nella sera europea del 31 Ottobre, Greg Moore muore a Fontana. E questa è, di fatto, la ragione per cui mi è difficile pensare a quel giorno sotto una luce positiva.


mercoledì 11 settembre 2019

Vent'anni dopo, in memoria di Gonchi Rodriguez

Quando si passa dall'essere appassionati di Formula 1 all'essere appassionati sia di Formula 1 sia di altre serie, succede qualcosa di molto strano: si vanno a ripercorrere eventi passati accaduti in un altro campionato e, inevitabilmente, si finisce per pensare: "ecco quello che succedeva mentre in Formula 1 succedeva [evento random]". Le sovrapposizioni non sono nate con Baku 2016 e non si sono esaurite con Baku 2016.
Correva l'anno 1999 e noi europei F1-centrici eravamo nel bel mezzo del weekend del gran premio d'Italia, quello che sarebbe culminato con Mika Hakkinen che veniva ripreso in lacrime dopo il ritiro, con commenti spesso impietosi nei suoi confronti.

Facciamo un passo indietro di un giorno: era sabato, il giorno delle qualifiche di quello stesso gran premio. Era l'11 settembre 1999, esattamente vent'anni fa.
Quel giorno, a Laguna Seca, si stavano svolgendo le qualifiche di una gara di Formula CART, all'epoca ancora la serie open-wheel americana di maggiore rilievo (era l'epoca dello split IRL/CART).
Mentre da noi era presumibilmente sera, in America moriva Gonzalo Rodriguez, altresì noto come Gonchi Rodriguez, pilota uruguayano che gareggiava part-time, quella stagione. Quella di Laguna Seca era la sua seconda partecipazione in totale.

Gonchi Rodriguez è uno di quei piloti che tendono ad essere dimenticati e messi da parte, magari tirati fuori solo quando si parla di altri: Rodriguez è morto neanche due mesi prima di Moore, Rodriguez aveva gareggiato in Formula 3 contro Wilson, di solito si ricorda Rodriguez soprattutto quando si sta parlando di Moore oppure di Wilson.
È sempre stato così e sempre sarà così, non è poi così improbabile: Gonchi Rodriguez ha disputato una sola gara di CART e dubito che, prima della sua morte, fossero molti che parlavano così tanto di lui. Quello che succede ora, a distanza di tanti anni, con Rodriguez messo da parte, è di fatto un ripetersi di quello che succedeva anche quando era in vita.

Curiosamente anche la vettura che il rookie uruguayano guidava è finita, nel corso del tempo, per avere quasi più rilievo del pilota: era la Penske numero 3. Talvolta Rodriguez viene scomodato dagli hater di Helio Castroneves, convinti che quest'ultimo non meritasse di guidare la Penske numero 3 per così tanti anni. Però anche lì Rodriguez arriva sempre in secondo piano.
Il discorso inizia generalmente così: "non dimentichiamoci che il pilota scelto da Penske per il 2000 era Greg Moore e che Castroneves era solo un 'ripiego'."
Poi arriva (quasi) sempre qualcuno che aggiunge: "nel 1999 quella macchina la guidava Rodriguez, quindi Castroneves si è ritrovato con un volante a causa di ben due incidenti mortali".
Il caso vuole che Rodriguez avesse un contratto esistente per il 2000... ma con un'altra squadra.

C'è un filo sottile che unisce molte situazioni diverse le une dalle altre. Spesso sembra che i piloti che non ci sono più non siano mai esistiti davvero come individui a sé stanti, ma che il loro scopo sia solo quello di essere tirati in mezzo quando si parla di altri... e quando si parla di loro come individui a sé stanti, spesso e volentieri non si parla di loro in quanto persone, ma semplicemente come di "robot" fatti per ottenere futuri risultati di alto livello. È questo che a mio parere sfugge sempre un po', in tutto, il lato umano del motorsport.

R.I.P. Gonchi Rodriguez, 1971-1999

giovedì 1 novembre 2018

La notte dopo Suzuka

Fonte dell'immagine: zimbio.com
Il 31 Ottobre 1999 Mika Hakkinen vinse il suo secondo titolo al Gran Premio del Giappone.
Lo stesso giorno, presumo quando ormai da noi era la notte tra il 31 Ottobre e il 1° Novembre, negli States terminò il campionato di Formula CART in California, a Fontana.
All'epoca non avevo la più pallida idea di che cosa fossero CART e Indycar, non avevo la più pallida idea di chi fosse Greg Moore e non saprei dire, con esattezza, quando venni al corrente della sua esistenza.
Quando a molti anni di distanza da quei giorni ho guardato i campionati di CART di quell'epoca mi sono resa conto per la prima volta, grazie alle gare, quanto fosse talentuoso quel pilota. Non solo, grazie ai siparietti che venivano mostrati in modo totalmente random durante le gare, dava anche l'impressione di essere un tipo piuttosto simpatico.
Il 31 Ottobre 1999, quando Hakkinen vinse il mondiale non la presi molto bene, perché vivevo un'epoca in cui ero una McLaren hater al massimo dello sfinimento. E' curioso, visto che la personalità di Hakkinen al giorno d'oggi mi sembra molto intrigante e lo considero un precious cinnamon roll, per utilizzare il linguaggio Tumblr. Al di là di tutto, comunque, non riesco a pensare al secondo titolo di Hakkinen senza pensare anche che, nello stesso giorno del Gran Premio del Giappone 1999, Greg Moore perse la vita a Fontana, all'ultima gara della stagione. :-(((

martedì 31 ottobre 2017

31 Ottobre 1999, da Suzuka a Fontana

A undici anni avevo le idee molto chiare: il fatto che Mika Hakkinen avesse vinto il suo secondo titolo consecutivo, rendeva ai miei occhi il 31 Ottobre 1999 un giorno tristissimo per il motorsport.
Sul mio diario segreto dell'epoca, uno di quei diari con il lucchetto che da bambini temevamo che finissero tra le mani dei nostri genitori (perché ovviamente, secondo la nostra mentalità, i genitori non avevano niente di meglio da fare che leggere i nostri deliri), mi lamentai per diverse pagine del fatto.
Tifavo per Irvine? Assolutamente no! Però, per qualche motivo, ritenevo doveroso sperare che Irvine vincesse quel mondiale perché Irvine, in assenza di Michael Schumacher, doveva salvare il mondo dai bad boyssss, che erano rappresentati da nientemeno che Hakkinen. Quindi, per me, il fatto che Hakkinen avesse vinto il mondiale rendeva quel giorno una mezza schifezza.
Sul mio diario me ne lamentai per diverse pagine, del tutto inconsapevole che quel giorno non era una "mezza schifezza" per il motorsport, ma che di lì a poco sarebbe diventato un giorno orribile per il motorsport.

Quella sera, dall'altra parte dell'oceano, a Fontana in California si decideva anche l'assegnazione del campionato di Formula CART.
I contendenti al titolo erano Juan Pablo Montoya e Dario Franchitti, all'epoca due giovani emergenti, e il titolo sarebbe stato assegnato a JPM, ma a nessuno sarebbe importato nulla di chi avrebbe vinto il titolo.
Quella sera, dall'altra parte dell'oceano, morì il pilota canadese Greg Moore, probabilmente il pilota più promettente di quell'epoca.
Questa mi pare una valida ragione per considerarlo un giorno orribile per il motorsport.

mercoledì 14 giugno 2017

Auguri, Dr Miller!

Il mondo del motorsport è vasto abbastanza da rendere piuttosto facile trovare soggetti di un certo livello, che meritano di essere considerati con attenzione. A volte, però, bisogna affinare la ricerca, indirizzandosi verso serie specifiche. Una miniera d'oro per i piloti che danno l'impressione di essere usciti dal nulla è la IRL all'epoca della scissione tra Indycar e Formula CART e, in particolare, uno di questi soggetti di un certo livello apparentemente usciti dal nulla è nientemeno che quello che venne alla luce il 14 giugno di cinquasei anni fa.

In realtà Jack Miller, omonimo del pilota di MotoGP vincitore dello scorso gran premio d'Olanda, non era esattamente uscito dal nulla: aveva debuttato in Indylights nel 1986 e ci aveva gareggiato per degli anni.
Aveva vinto qualcosa? Assolutamente no.
Era andato vicino a vincere qualcosa? Ugualmente no.
Giusto per fare un esempio, facendo un paragone tra Indylights e GP2, sarebbe un po' come avere in Formula 1 piloti che in GP2 non sono nemmeno mai saliti sul podio..
Tuttavia Jack Miller almeno in Indylights c'era stato e ci aveva gareggiato per anni (vincendo anche un campionato denominato B-Series Indylights, ma Wikipedia spiega che l'ha vinto perché usava un vecchio telaio più performante di quelli nuovi ed era l'unico), perché effettivamente nei primi anni dopo la scissione in Indycar si è vista anche gente che non era nemmeno passata da lì.

Jack Miller non era solo Jack Miller. No, era il Dr Jack Miller, e così era indicato testualmente il suo nome sulla sua vettura e nella grafica.
Era un dentista.
Aveva fin da bambino il sogno di diventare pilota ed era riuscito, in qualche modo, a realizzarlo.
Non solo: è anche riuscito a prendere parte, più di una volta, alla gara automobilistica più importante al mondo. All'esordio alla Indy 500, nel 1997, si è classificato 20°. E' stato il miglior risultato in quattro partecipazioni.
Per due anni ha gareggiato full time nella IRL, ottenendo come miglior risultato in gara un nono posto, che è stato il suo unico arrivo in top-ten.
In seguito ha gareggiato part-time, apparentemente perché gareggiare full-time non era compatibile con gli altri suoi impegni professionali, ritirandosi dalle competizioni dopo un infortunio avvenuto all'inizio del 2001.
Se non ci fosse stato l'infortunio, anche quell'anno avrebbe tentato di qualificarsi per la Indy 500.

Criticato dai più durante la sua carriera in Indycar perché non ritenuto al livello della serie, ad oggi quei pochi che se lo ricordano, lo ricordano con simpatia.

Buon compleanno, Dr Miller!

domenica 4 giugno 2017

紳士淑女、あなたのエンジンを始める

Pronuncia, all'incirca "shinshi shukujo, anata no enjin o hajimeru", che secondo Google Translate traduce in giapponese "Ladies and Gentlemen, start your engines".

Indianapolis, 26 Maggio 1991: quel giorno Rick Mears vinse la 75esima edizione della Cinquecento Miglia e divenne il terzo quattro-volte-vincitore della storia, in una gara in cui il pilota rimasto in testa più a lungo fu Michael Andretti, che poi chiuse secondo. Era la prima volta, inoltre, in cui c'erano quattro membri della famiglia Andretti sulla griglia di partenza. Non solo. C'era un rookie che partiva dalla ventiquattresima posizione, dopo essersi qualificato otto giorni prima per l'evento, destinato a chiudere sedicesimo. Avrebbe potuto essere considerato uno dei tanti, se non fosse che, nel suo piccolo, stava scrivendo un piccolo pezzo della storia della Cinquecento Miglia di Indianapolis e che peraltro, una volta fuori dalle competizioni automobilistiche, era destinato a dare il suo contributo a quello che sarebbe successo a Indianapolis ventisei anni dopo, curiosamente nel giorno in cui veniva disputata, qui in Europa, la 75esima edizione del Gran Premio di Montecarlo.

Torniamo al rookie di Indy 1991. Campione della Pacific Division della Formula Atlantic nel 1989, stagione nel corso della quale aveva ottenuto quattro vittorie, poteva apparire destinato a diventare un pilota di un certo livello, ma la realtà dei fatti lo consacrò al ruolo di chicane mobile della Indycar e della Formula CART. Aveva già tentato l’anno precedente, senza riuscirvi, a qualificarsi per la Cinquecento Miglia, centrando l’obiettivo al secondo tentativo, quello del 1991, appunto. Quel rookie rispondeva al nome di Hiroyuki Matsushita, nome rigorosamente abbreviato in Hiro, perché si sa che gli americani non sono mai stati molto bravi ad azzeccare i nomi dei piloti stranieri.
Sponsorizzato dalla Matsushita Electrics, colosso giapponese fondato da suo nonno, HIRO MATSUSHITA era uno dei tanti signori nessuno che popolavano le retrovie delle corse sugli ovali, negli anni ’90, ma il suo accesso alla griglia di partenza della Indy 500 fu storico: era il primo giapponese a prendere parte alla Cinquecento Miglia di Indianapolis.
Vi gareggiò in totale quattro volte: saltata l'edizione 1992 a causa di una frattura a una gamba rimediata durante i test, fu al via nel 1993, 1994 e 1995, cogliendo come miglior risultato a Indianapolis un 10° posto alla sua ultima partecipazione. A quel punto ci fu la scissione IRL/CART e Matsushita divenne chicane mobile nella Formula CART e al termine della sua carriera divenne il pilota con il maggior numero di partenze nell'American open wheel senza ottenere nemmeno una top-5, record non troppo positivo che detiene tuttora.
Soprannominato King Hiro grazie a un team radio trasmesso durante una gara (per certe cose gli americani erano piuttosto avanti, negli anni ’90), esistono due varianti alla storiella che ne determinò il soprannome, ma tutte e due convergono verso lo stesso risultato. Non si bene nel corso di quale evento, perché come ben si addice alle “storielle strappalacrime” del motorsport, se sono interessanti finiscono per diventare decontestualizzate, Emerson Fittipaldi se lo ritrovò davanti e c’è da scommettere che Matsushita non fosse a pieni giri. A quel punto c’è chi sostiene che il messaggio pronunciato da Fittipaldi alla radio venne tagliato perché la prima sillaba non si sentiva bene, quindi ne uscì un “...king Hiro”, mentre c’è chi sostiene invece che, quando la comunicazione radio venne trasmessa di lì a poco, la prima sillaba fosse stata messa in silenzioso come censura. Non serve comunque molta immaginazione per capire che cosa intendesse dire Fittipaldi in quell’occasione.
Al termine della propria carriera nelle competizioni americane a ruote scoperte, “King Hiro” appese verosimilmente il casco al chiodo e andò ad occuparsi delle imprese di famiglia. Lasciò probabilmente un volante libero per qualcuno che se lo meritava più di lui, ma la CART fu costretta a dire addio a una presenza comunque pittoresca.

Durante gli anni in cui "King Hiro" era in azione a Indianapolis anche altri suoi connazionali fecero qualche comparsa. È il caso di KENJI MOMOTA, che risultava nella entry list del 1990 (stagione in cui Matsushita non si qualificò) ma secondo wikipedia non prese parte al rookie orientation test. Lo fece nel 1992, ma non si qualificò, in quanto il suo tempo venne battuto da Jimmy Vasser.
Momota non si qualificò mai per la Indy 500. In realtà non prese parte nemmeno ad altri eventi, dato che risulta non essere mai stato al via di una gara di Indycar. In seguito divenne il primo pilota giapponese a gareggiare in NASCAR, con all'attivo un paio di partenze nella serie Truck, in cui ottenne risultati di rilievo pressoché nullo.

Andò molto meglio a HIDESHI MATSUDA, il secondo giapponese a competere nella Indy 500. Tra il 1994 e il 2000, in sette anni tentò di qualificarsi per ben sei volte. Ci riuscì nel 1994, nel 1995, nel 1996 e nel 1999. In due di quelle occasioni si classificò in top-10.
Il suo ottavo posto nell’edizione 1996 divenne il miglior risultato ottenuto da un giapponese nella Cinquecento Miglia di Indianapolis, anche se ovviamente c’è chi dice che non vale niente, perché il 1996 era l’anno della scissione, la IRL era una serie molto disorganizzata e i piloti fu necessario andarli a pescare un po’ a caso, dato che quelli più rinomati, insieme ai team più rinomati, quel giorno gareggiavano nella US 500, in sovrapposizionehhhhh con la Indy 500. Sono profondamente convinta che i risultati vadano apprezzati per quello che sono e che chiudere una gara come la Cinquecento Miglia di Indianapolis all’ottavo posto significhi comunque avere ottenuto una prestazione dignitosa, pertanto direi che possiamo considerare la top-ten di Matsuda come una “vera” top-10, nonostante quello che dicono i fanboy puristi della CART (fanboy puristi della CART che, devo ammetterlo, in realtà in genere non spendono una sola parola per Matsuda, in quanto da loro ritenuto irrilevante, è più facile che se la prendano con gente tipo Lazier o Cheever). Matsuda conquistò anche un decimo posto nella gara del 1999.
Oltre che nella IRL, fece una comparsa anche nella Formula CART: gareggiò nel 1998 a Twin Ring Motegi senza ottenere risultati di particolare spessore. Suo cognato è un attore giapponese e si narra che, dopo la fine della sua carriera nel motorsport, Matsuda abbia lavorato come stuntman nei suoi film!

Agli albori del terzo millennio approdò a Indianapolis anche SHIGEHAKI HATTORI, che non è parente del Naoki Hattori che tentava di prequalificarsi sulla Coloni.
Shigekhaki gareggiava in Formula CART alla fine degli anni '90 e, quando gli fu ritirata la licenza perché ritenuto troppo inesperto avendo collezionato un totale di diciotto testacoda in sette gare, passò nella IRL.
Tentò di qualificarsi tre volte per la Cinquecento Miglia, tra il 2001 e il 2003, riuscendoci negli ultimi due tentativi, miglior risultato in gara 20° nel 2002.
Il miglior risultato che ottenne in altre gare fu un sesto posto nella IRL, che eguagliava il sesto posto ottenuto da Matsushita nell'epoca pre-scissione. In seguito Hattori gareggiò anche nel campionato NASCAR Truck e al giorno d'oggi possiede un team che gareggia in varie serie di stock car.

L'edizione del 2003 fu un'altra edizione storica: sulla griglia di partenza c'erano ben tre piloti giapponesi.
Il già citato Hattori partiva in penultima fila, mentre di maggiore spessore furono le performance di SHINJI NAKANO, qualificato quindicesimo, e di un altro di cui parleremo tra un po'.
Nakano, che aveva gareggiato nei tre anni precedenti in Formula CART, miglior risultato un quarto posto, chiuse in quattordicesima posizione l'unica Indy 500 a cui prese parte. Fu una delle uniche due gare della IRL a cui prese parte, l'altra quella di Motegi all'inizio della stagione.
Al giorno d'oggi Shinji Nakano risulta ancora in attività, appare sporadicamente nel WEC e in tempi recenti ha preso parte alla sei ore del Fuji nel 2016 al volante della Manor.

A rendere il 2003 storico per il Giappone non fu solo la presenza di tre piloti giapponesi a Indianapolis, ma anche la performance di uno di quei piloti, che condivideva con Nakano il fatto di essere una “vecchia gloria” della Formula 1. Finita la sua parentesi in Formula 1, era approdato alla Formula CART nel 2001/2002, per poi passare alla Indy Racing League nel team di Mo Nunn, colui che era stato l’ingegnere di gara di Alex Zanardi all’epoca del team Ganassi e per cui Zanardi aveva gareggiato nel 2001.
La reputazione di questo fantomatico pilota giapponese non era proprio positiva, ma a conti fatti, palmares alla mano, la sua carriera fu meno negativa di quanto tendano a descriverla quelli che commentano ogni suo vecchio incidente come “worst indycar driver ever”. Il peggior pilota di Indycar di sempre non avrebbe portato a casa due quarti posti in Formula CART. Non sarebbe nemmeno stato il primo pilota giapponese a salire sul podio in una gara della IRL (Texas 2003).
Forse non si sarebbe nemmeno qualificato settimo a Indianapolis terminando la gara in quinta posizione, venendo votato come Rookie of the Year, perché le statistiche parlano chiaro: il RoY 2003 è nientemeno che TORA TAKAGI, nome completo Toranosuke, ma figuriamoci se gli americani potevano essere in grado di pronunciarlo...
Chiuso il campionato 2003 in decima posizione, Takagi rimase un altro anno nella IRL, dove ottenne però risultati di minore spessore. Anche a Indianapolis non ottenne risultati di particolare rilievo. Rimase comunque per cinque anni l’unico pilota giapponese ad avere ottenuto un podio in una gara di Indycar e, fino al pomeriggio del 28 Maggio 2017, il pilota giapponese meglio classificato di sempre nella Cinquecento Miglia di Indianapolis.

KOSUKE MATSUURA (il cui nome veniva pronunciato "Kozki" dagli speaker americani, non saprei dire se sia una pronuncia corretta o meno), gareggiò regolarmente in Indycar tra il 2004 e il 2007, con una sporadica partecipazione in seguito a Motegi 2009, e per quattro stagioni di seguito prese il via alla Indy 500, miglior risultato un undicesimo posto alla prima partecipazione.
Per il resto, nelle altre gare del campionato, il suo miglior risultato fu un quarto posto. Forse più che per i suoi risultati è celebre per la gara di Kentucky 2007, in cui Dario Franchitti lo utilizzò come trampolino di lancio in un curioso incidente che avvenne dopo che entrambi avevano già tagliato il traguardo. Franchitti disse che non si era reso conto che la gara fosse già finita e che, di conseguenza, pensando che ci fosse un altro giro, non si aspettava che Matsuura rallentasse. A rendere tutto ancora più incredibile, erano passati, all’epoca, appena sei giorni dal precedente cappottamento di Franchitti.

Ho parlato del fatto che il record di Takagi relativo alle altre gare del campionato IRL non fosse stato battuto fino al 2008 ed è giunto il momento di introdurre quello che gli strappò il record: secondo classificato nel campionato Indylights nel 2007, HIDEKI MUTOH debuttò in Indycar all'ultimo evento del campionato 2007. Gareggiò in pianta stabile tra il 2008 e il 2010, presenziando inoltre a Motegi 2011.
Salì sul podio due volte nella IRL, un secondo posto nel 2008 e un terzo nel 2009, e prese parte per tre volte di seguito alla Indy 500.
Alla Cinquecento Miglia entrò nella top-9 in qualifica per ben due volte, partendo in nona posizione nel 2008 e nel 2010. Ottenne due top-ten in gara, nel 2008 e nel 2009: settimo al primo tentativo, chiuse decimo nel secondo.

Più o meno all’epoca in cui Mutoh conquistava il primo podio in Indycar, TAKUMA SATO perdeva il volante in Formula 1 a causa del fallimento della Super Aguri. Voci di corridoio narravano che fosse in lizza per un posto in Toro Rosso nel 2009, ma nel 2009 in Toro Rosso c’erano Buemi e Bourdais.
Sato andò a gareggiare negli Stati Uniti, come sistemazione provvisoria, tanto che tuttora, di tanto in tanto, i telecronisti raccontano di come, pensando che tutto fosse destinato a finire molto in fretta, Sato non abbia mai portato la moglie e i figli negli States e che lui stesso, di fatto, abbia ancora residenza a Montecarlo, proprio come all’epoca della Formula 1.
Non fu tutto rose e fiori e anche in Indycar Sato si beccò un bel po’ di critiche, visto che non era mai stato un pilota molto tranquillo. Tuttavia, oltre agli incidenti e al caos, andò a cogliere anche dei piazzamenti sul podio. Il suo momento di gloria poteva arrivare nel 2012, quando all’ultimo giro della Indy 500 tentò il sorpasso su Dario Franchitti, al momento leader della gara. Gli andò male, cozzò contro la vettura di Franchitti e poi finì a muro. Franchitti, invece, vinse.
Nel 2013, a Long Beach, circuito cittadino, conquistò una storica vittoria. Fu il primo pilota giapponese a ottenere una vittoria in Indycar. Si susseguirono molti acuti, molto caos e soprattutto molto caos spesso in corrispondenza degli acuti. Takuma Sato stava ancora inseguendo la sua seconda vittoria in carriera e la sua seconda vittoria in carriera è arrivata quest’anno proprio alla Cinquecento Miglia di Indianapolis, laddove qualsiasi pilota vorrebbe vincere. Mai considerato uno dei favoriti, è stato per tutta la gara tra le posizioni che contavano. Alla fine si è portato in testa, superando Castroneves per la prima posizione... uno che la Indy 500 l’ha vinta tre volte, non il primo venuto. È diventato, all’età di quarant’anni, uno dei piloti che contano.
L’ha fatto grazie al team Andretti che ha creduto in lui e grazie alla Panasonic, che lo sponsorizza da anni e che da anni investe nelle sponsorizzazioni al motorsport.
La Panasonic appartiene al gruppo giapponese Matsushita Electrics. Il suo presidente è Hiro Matsushita.


giovedì 14 luglio 2016

Vent'anni dopo

Jeff Krosnoff esordì nella Formula Cart nel 1996, per il team Arciero-Wells. Ho visto quella stagione al completo, alla fine della scorsa estate, rendendomi conto del fatto che era uno di quei piloti che veramente nessuno si filava.

Sfortunatamente catalizzò l'attenzione su di sé il 14 luglio 1996, quando fu protagonista di un devastante incidente sul circuito di Exhibition Place a Toronto dopo un contatto con la vettura di Stefan Johanson.
A seguito dell'incidente morirono sul colpo sia Krosnoff sia il commissario di percorso Gary Alvin. Rimase ferita nell'incidente anche Barbara Johnston, altro commissario di percorso, che se la cavò soltanto con ferite marginali.

T.T

Fonte dell'immagine: maxpapis.com X.

mercoledì 30 dicembre 2015

Keep calm and watch the Real & Only Indycar!

Curiosità e osservazioni random sulla Indycar post-riunificazione: 2012, 2013, 2014 e 2015

Ho iniziato a guardare la Indycar nel 2012. Ho iniziato a guardarla perché dopo diciannove anni di assuefazione da Barrichello temevo di andare in crisi di astinenza se non fossi riuscita a guardare un campionato a cui prendeva parte. Insomma, non sarà stata la motivazione migliore per iniziare a seguire la Indycar (senza nulla togliere a Barrichello, anzi ero io che toglievo qualcosa alla Indycar non prendendola in considerazione prima), però sono felice di averlo fatto. All’epoca in cui ero una niubba della Indycar non si contano le cose strane che ho osservato. Giusto per dare un esempio del livello a cui mi sono spinta è un post della vigilia della prima gara stagionale, in cui sul mio blog sostenevo che avrei cercato di vedermi la gara per via della presenza di Barrichello e che la pole position l’aveva ottenuta “un certo Will Power che non ho idea di chi sia”. Okay, prima o poi avrò un incubo in cui Power mi guarda con aria da trollface e mi dice: “Sono un detersivo, proprio come Dixon”... Sarebbe veramente una scena da horror: nella realtà certe cose non accadrebbero mai e vedere Power con aria da trollface invece che col dito medio alzato significa che Power è posseduto dallo spirito di qualche trollone!
La cosa di cui mi vergogno maggiormente, però, è stato leggere “Grand Prix of St. Petersburg” e avere come primo pensiero “ah, la Indycar corre in Russia?”... È terribile, lo so!
Ho iniziato a guardare la Indycar a tratti, tra connessioni che saltavano, gare che mi perdevo perché convertire le ore non è esattamente il mio forte, orari scomodi e inconsapevolezza che fosse facilissimo reperire le gare su youtube e vedersele di lì a poco. Quando ho scoperto quest’ultimo dettaglio mi si è aperto un modo e mi sono messa in pari. Dal 2013 in poi sono sempre stata in pari.

> Un finale alla “Oh my Taku banzai”
Confessione random: il “piccolo samurai giapponese” era un mio idolo dal lontano 2005, ma l’avevo perso di vista dopo la sua uscita di scena dalla Formula 1. Ritrovarmelo in Indycar è stato spettacolare e nel giro di poco tempo è arrivato a surclassare Barrichello nella mia personale classifica di preferenze.
Vederlo in lotta per la vittoria a Indianapolis è stato spettacolare. Sarebbe stato spettacolare anche vederlo in victory lane, credo. Però in victory lane c’era Franchitti con Ashley Judds al seguito e sembravano ancora una coppia affiatata, nonostante si siano lasciati soltanto pochi mesi più tardi. Sato purtroppo era affiatato soltanto con i muri, al momento.
Non è stata la sola presenza di Sato a rendere quell’edizione della 500 miglia memorabile, bisogna anche citare che:
- ha partecipato anche Jean Alesi, qualificandosi in ultima posizione e venendo blackflaggato dopo pochi giri perché la sua vettura era troppo lenta (i motori Lotus, triste sorte in cui Alesi era accomunato con Simona De Silvestro);
- ha partecipato anche Michel Jourdain Jr (pilota di cui ho già abbondantemente parlato nelle puntate precedenti) senza essere notato per nessun motivo particolare;
- alla veneranda età di 40 anni Rubens Barrichello è stato proclamato “rookie of the year” di Indianapolis, salendo al secondo(!!!!) posto dei rookie of the year più vecchi (Lynn St. James nel 1992 di anni doveva averne 45, se non sbaglio).

> La presunta ossessione della Indycar per il numero 37
A Edmonton nel 2012 Charlie Kimball venne penalizzato per un sorpasso irregolare con un “drive through” post gara di 37 secondi. Me ne stupii al punto tale da scriverlo nel mio commento.
Negli anni a venire ho maturato la convinzione che il 37 sia in qualche modo il simbolo della Indycar: le gare iniziano a orari strani, tipo le 14.37 o le 20.37 o cose del genere.

> Conway Street
Il momento clou del 2012 credo che sia avvenuto sul circuito cittadino di Baltimora, dove un’inquadratura successiva a un incidente mostrò Mike Conway in una posizione singolare: stava con l’ala anteriore puntata contro una barriera e con la parte posteriore della vettura in bilico sull’ala posteriore dell’auto di Justin Wilson.
La cosa di per sé sarebbe passata inosservata, se non fossero stati inquadrati i cartelli della viabilità cittadina di Baltimora e non fosse stato notato, tra l’ilarità generale, che il nome di quella via era “Conway Street”.

> Katherine Legge in top-10
Dopo l’abbandono di Danica Patrick destinazione NASCAR e l’impossibilità di Milka Duno e Pippa Mann di accaparrarsi un volante per la stagione, le uniche due donzelle rimaste in pista erano Katherine Legge e Simona De Silvestro (sì, c’ è stata anche Ana Beatriz, ma solo all’inizio della stagione), quest’ultima che dato il motore che si ritrovava avrebbe probabilmente pagato qualunque cifra per fare cambio con una McLaren Honda del 2015, questo giusto per far capire come fosse messa al momento.
La vincitrice dello scontro è stata quindi la Legge, che all’ultima gara stagionale a Fontana ha conquistato anche una top-ten.
Katherine: “Yaaaaayyyyy! Ho vinto io! Il mondo è mio! Andretti è mioooooo!”
Simona: “Eh, no, te lo scordi! Marco appartiene a me!”
Marco: “Milka, aiutami tuuuuuuuuu!”
Katherine: “Milka non c’è più, rassegnati.”
Marco: “Va beh, mi troverò un’altra pseudo-mamma...”
Simona: “Fermalo, Katherine, sta correndo verso il box del team Fisher...”
Tornando a Fontana... gara curiosa, quella di Fontana: era stato in testa anche Alex Tagliani, per alcuni giri, prima di perdere un paio di posizioni e poi rompere il motore. Credo che in quel momento Alex avrebbe preferito di gran lunga giocare a briscola. Che sia quella la ragione del pizzetto simil-Liuzzi?

> It’s Taku-Bitch, the king of Long Beach!
Il momento che aspettavo da tanto tempo è arrivato il 21 Aprile 2013: Takuma Sato ha vinto una gara e io quella gara peraltro me la sono persa per scelta personale, perché volevo rivedermi sulla Rai il gran premio che già avevo visto in streaming quel pomeriggio. Ho acceso il computer soltanto quando la gara era ormai finita, vedendomi gli ultimi giri e assistendo alla cavalcata trionfale del piccolo Taku. Ovviamente la gara l’ho recuperata il giorno dopo e me la sono guardata con immensa gioia.
Torniamo alla questione del “piccolo Taku” e alla filosofia del “it’s little, it’s hot” che tanto va di moda quando si tratta di Sam Bird o Will Stevens (passi il primo che ha posato nudo con un casco davanti alle parti intime, ma nel secondo non ci trovo proprio nulla). Ecco, io mi batterò sempre per la parificazione tra i piloti bassi. Se Stevens è un figo, anche Sato deve essere classificato come tale. La sua biografia ufficiale lo vuole alto 1,62 ed è riuscito nell’eroica impresa di vincere una gara in cui secondo e terzo finirono Rahal (statura: 1,88) e Wilson (statura: 1,93). Nelle foto del podio (sul quale si era portato una bandiera del Giappone), nonostante fosse sul gradino più alto sembrava ancora più piccolo di quando è di fianco a piloti di statura un po’ più standard (non che sia mai stato sul gradino più alto del podio altre volte per fare confronti, ma questi sono dettagli).
C’è di più: Sato andò vicino a vincere anche la gara successiva, in Brasile (dove tutti i brasiliani presenti ebbero una sfiga cosmica, simil-Barrichello a Interlagos), se non che fu costretto ad arrendersi all’ultima curva a Hinchcliffe, con grande gioia delle fangirl che seguivo su twitter all’epoca che evidentemente non erano affascinate da Sato tanto quanto lo erano da Hinchcliffe. Una scrisse addirittura che l’unica ragione per cui si ricordava Sato era che aveva gareggiato in Formula 1 ottenendo gli stessi risultati di Ide. Per cortesia, qualcuno spieghi a questa gente che prima di andare a scrivere su twitter è meglio farsi una cultura e che quantomeno non avere mai sentito nominare Power prima di vedere la Indycar e credere che la Indycar gareggi in Russia non sminuisce i risultati di nessuno.

> Una Indy 500 dal risultato epico!
Quella del 2013 è stata la prima Indy 500 che ho seguito in diretta, collegandomi peraltro un’ora prima della partenza.
Conoscevo già le tradizioni della domenica, ma un conto è vederle a posteriori e un conto è vederle in diretta. Poi sì, ho notato che gli americani sono strani, ma quello lo noto ogni singolo giorno e ormai non ci faccio più caso.
Ovviamente nel corso di quell’ora abbondante si sono viste anche varie interviste registrate per l’occasione di cui una dei Brazilian Bros ha raggiunto il top dei top, in cui veniva raccontata la famosa storiella della loro infanzia che ci era già stata propinata in tutte le salse e ripercorsa la loro carriera, con tanto di vari minuti spesi a parlare di quella volta che avevano litigato via stampa per una manovra da “you have to leave the space” qualcosa come sei o sette anni prima.
Tutta l’attenzione catalizzata su Kanaan deve avergli portato bene, dato che finalmente, al dodicesimo(?) tentativo è riuscito a vincerla!
Per scommessa con Barrichello, dopo la vittoria si è tinto i capelli di biondo (capelli, poi... trovarli sulla testa di Kanaan è come trovare un ago in un pagliaio), mentre Barrichello se li è rasati (nel senso, si è tagliato un po’ il ciuffo copri-stempiatura e nei selfie su twitter diceva di essersi rasato).

> Il trofeo di Bourdais!
Correva l’anno 2013 e il nostro caro Sebbiiii veniva costantemente preso per i fondelli dai telecronisti (curiosità: uno dei telecronisti USA era nientemeno che il suo grande “amico” Paul Tracy... che ci fosse una proporzionalità diretta tra questo e il fatto che veniva preso per i fondelli in telecronaca? XD) perché da quando era tornato in Indycar dopo la parentesi in Toro Rosso non si stava più ripetendo, ottenendo risultati di gran lunga inferiori rispetto all’epoca della Champ Car. Non solo non vinceva, ma non finiva neanche più sul podio...
Poi è arrivato il suo giorno di gloria. Era uno di quei weekend con doppia gara in cui c’era partenza da fermi e successivo “aborted start” perché qualcuno combinava casini o qualche vettura decideva di smettere di funzionare al momento meno opportuno. In un’altra simile occasione, qualche mese prima, Sebbiiii si era messo in mostra ballando la samba e vedendosi lanciare addosso un paio di guanti da un calmissimo (citazione necessaria) Will Power.
Comunque al momento più opportuno Sebastien si è classificato secondo, salendo sul podio e prendendo finalmente in mano un trofeo... era di vetro, un pezzo si è staccato e si è fracassato a terra. Il giorno dopo in gara 2 è arrivato terzo. Stavolta non ha rotto il trofeo. Negli anni successivi è anche riuscito a vincere.

> Il ritorno dell’uomo che sussurrava ai tombini
Perso nella dimensione parallela della Formula 1 e della NASCAR, Juan Pablo Montoya era stato lontano dalle “American open wheels series” fin dal lontano 2000, in cui peraltro aveva trionfato alla 500 miglia di Indianapolis alla sua (finora) unica partecipazione.
La cosa più pittoresca del suo ritorno (oltre ad avere preso parte, nel 2014, a una Indy 500 in cui c’era in pista anche Jacques Villeneuve) è stata un’intervista pre-stagionale che ho visto su youtube. In realtà tutti i piloti più quotati erano intervistati, e veniva chiesto a ciascuno chi riteneva fossero gli avversari più difficili da battere per il titolo.
L’intervista di Montoya si è trasformata in un nanosecondo in un festino brasiliano, quando Montoya è stato raggiunto dal compagno di squadra Castroneves e i due si sono messi a parlare del fatto che Power (altro loro compagno di squadra, tra parentesi) non capisce mai le loro battute, cosa che non mi pare c’entrasse molto con l’intervista.
Per concludere in bellezza è arrivato Kanaan a photobomberare l’intervista, raccontando senza una ragione ben precisa che sua moglie sostiene che Montoya è un uomo attraente e che lui non lo trova altrettanto attraente. Poi, non si sa bene come, Kanaan e Montoya sono finiti a parlare delle dimensioni del naso di Kanaan.

> It’s Pippa, it’s Pink!
A partire dal 2014(?) la vettura di Pippa Mann è rosa, non è chiaro se per via del suo sponsor o per permettere a Marco Andretti di sfuggirle.
Marco: “Basta, Autrice! Perché mi vuoi appioppare tutte le mie colleghe?”
Pippa: “Perché sei il nostro sex symbol preferito, my love.”
Marco: “Okay, corro a nascondermi... il che è esattamente quello che faccio in ogni gara.”

> Incredibile ma vero, Power ha vinto il titolo!
Pluricampione della specialità olimpica dello sventolamento in aria del dito medio, Will Power ha sempre avuto una pecca: essere in grado di trovarsi in testa alla classifica sempre, tranne che nel momento in cui contava. Dopo avere passato gli anni a perdere titoli all’ultima gara a vantaggio di Franchitti, Hunter-Reay e Dixon (in occasione della sfida con quest’ultimo mi è capitato di leggere quel glorioso articolo che ha fatto la storia, in cui si notava che Power e Dixon sembrano nomi di detersivi), poteva puntare a diventare il Fernando Alonso della Indycar.
...Invece no, alla fine del 2014 ha conquistato finalmente il tanto ambito titolo, battendo Castroneves all’ultima gara.
Bonus: Castroneves era stato in testa alla classifica per gran parte della stagione, finendo il campionato in stile Power.
Doppio bonus: nonostante abbia perso il titolo, Castroneves ha continuato a fare il trollone, anche proprio nelle occasioni in cui si è giocato la possibilità di vincere il titolo.

> I rumors su Alexander Rossi
Guess what? Alex Rossi ha impresso il proprio nome anche nella storia della Indycar nell’off-season 2014/2015, in cui foto, rumors e articoli vari lo linkavano al team Coyne.
Ovviamente la cosa non è andata a buon fine e, al posto che avrebbe dovuto occupare lui, abbiamo visto a seconda delle occasioni il nostro connazionale Francesco Dracone e l’ex tester della Marussia Rodolfo Gonzalez.

> Un finale alla “Oh my Monty manholes’ breaker!”
La Indy 500 è una gara che sa essere lunga ed estenuante, ma allo stesso tempo maledettamente intrigante. L’edizione del 2015, iniziata peraltro con un incidente tra Takuma Sato e Sage Karam e proseguita con dei tweet in cui quest’ultimo e suo padre (Karam Sr., avrei scoperto in una successiva telecronaca, è l’ex fisioterapista di Michael Andretti) criticavano l’accaduto, è stata una di quelle che credo di avere vissuto più al cardiopalma di tutte le altre.
L’ha vinta Montoya.
L’ha vinta dopo che all’inizio era precipitato in qualcosa come trentesima(?) posizione.
L’ha vinta a quindici anni di distanza dalla vittoria del 2000.
Non è scoppiato a piangere dopo la vittoria, ma non si può avere tutto dalla vita.
Bonus: nel corso della stagione Montoya è stato protagonista anche di altre eroiche imprese, tipo perdere il titolo per un punto, ma soprattutto essere protagonista di un epico siparietto (in una delle gare che avevano preceduto Indianapolis) in cui alla fine della gara si improvvisava intervistatore e intervistava il compagno di squadra Castroneves.

> Due incidenti tra compagni di squadra in cinque minuti contati
A Detroit, pochi giorni dopo Indianapolis, sia il team Ganassi sia il team Penske si sono fatti notare, a cinque minuti di distanza, con due diversi incidenti tra compagni di squadra: Kimball vs Dixon per il team Ganassi, Power e Castroneves per il team Penske.
Sì, lo so, quando avete letto Penske avevate pensato male, ma per una volta Montoya non c’entra nulla... per una volta.

> Il momento clou del quadriennio
Nel periodo 2012/2015 ci sono stati vari momenti memorabili, ma credo che uno li abbia superati tutti, seppure sia stato irrilevante, dovuto al susseguirsi dei pit-stop e totalmente ininfluente sul risultato finale. Però merita, assolutamente, e merita di non essere dimenticato.
Toronto, 2015. Sulla pista in cui nel 2006 in Champ Car Paul Tracy aveva schivato dei piccioni che per qualche oscura ragione ritenevano sicuro starsene nel bel mezzo dell’asfalto durante un gran premio e in cui nel 2014 in Indycar la safety car era finita in testacoda in una gara bagnata, è accaduto un fatto che dovrebbe entrare negli annali della Indycar.
Ad un tratto abbiamo letto “LEADER: GONZALEZ”. Poi va beh, era su una strategia diversa, è rientrato più tardi ed è arrivato tra gli ultimi, ma intanto è stato in testa a una gara di Indycar.

> Il momento clou del quadriennio andato irreparabilmente perduto
Trigger warning: questo paragrafo contiene menzioni di Paul Tracy, soggettone di cui ho parlato a lungo in post passati.
Avevamo lasciato Paul Tracy a fare il telecronista... e lo fa tuttora.
Per puro caso, qualche tempo fa, ho trovato un articolo risalente allo scorso mese di luglio che lo riguarda, contenente uno scoop epico: dopo circa dieci anni, ha fatto pace con Bourdais.
Nello stesso articolo era citato un siparietto in cui erano entrambi protagonisti, trasmesso dopo una sessione di prove libere.
Su youtube pare non esserci nulla di tutto ciò, il che significa che con tutta probabilità non vedremo mai questo servizio. Ciò non mi aggrada.


Pubblicato anche su F1GC.