mercoledì 30 dicembre 2015

Keep calm and watch the Real & Only Indycar!

Curiosità e osservazioni random sulla Indycar post-riunificazione: 2012, 2013, 2014 e 2015

Ho iniziato a guardare la Indycar nel 2012. Ho iniziato a guardarla perché dopo diciannove anni di assuefazione da Barrichello temevo di andare in crisi di astinenza se non fossi riuscita a guardare un campionato a cui prendeva parte. Insomma, non sarà stata la motivazione migliore per iniziare a seguire la Indycar (senza nulla togliere a Barrichello, anzi ero io che toglievo qualcosa alla Indycar non prendendola in considerazione prima), però sono felice di averlo fatto. All’epoca in cui ero una niubba della Indycar non si contano le cose strane che ho osservato. Giusto per dare un esempio del livello a cui mi sono spinta è un post della vigilia della prima gara stagionale, in cui sul mio blog sostenevo che avrei cercato di vedermi la gara per via della presenza di Barrichello e che la pole position l’aveva ottenuta “un certo Will Power che non ho idea di chi sia”. Okay, prima o poi avrò un incubo in cui Power mi guarda con aria da trollface e mi dice: “Sono un detersivo, proprio come Dixon”... Sarebbe veramente una scena da horror: nella realtà certe cose non accadrebbero mai e vedere Power con aria da trollface invece che col dito medio alzato significa che Power è posseduto dallo spirito di qualche trollone!
La cosa di cui mi vergogno maggiormente, però, è stato leggere “Grand Prix of St. Petersburg” e avere come primo pensiero “ah, la Indycar corre in Russia?”... È terribile, lo so!
Ho iniziato a guardare la Indycar a tratti, tra connessioni che saltavano, gare che mi perdevo perché convertire le ore non è esattamente il mio forte, orari scomodi e inconsapevolezza che fosse facilissimo reperire le gare su youtube e vedersele di lì a poco. Quando ho scoperto quest’ultimo dettaglio mi si è aperto un modo e mi sono messa in pari. Dal 2013 in poi sono sempre stata in pari.

> Un finale alla “Oh my Taku banzai”
Confessione random: il “piccolo samurai giapponese” era un mio idolo dal lontano 2005, ma l’avevo perso di vista dopo la sua uscita di scena dalla Formula 1. Ritrovarmelo in Indycar è stato spettacolare e nel giro di poco tempo è arrivato a surclassare Barrichello nella mia personale classifica di preferenze.
Vederlo in lotta per la vittoria a Indianapolis è stato spettacolare. Sarebbe stato spettacolare anche vederlo in victory lane, credo. Però in victory lane c’era Franchitti con Ashley Judds al seguito e sembravano ancora una coppia affiatata, nonostante si siano lasciati soltanto pochi mesi più tardi. Sato purtroppo era affiatato soltanto con i muri, al momento.
Non è stata la sola presenza di Sato a rendere quell’edizione della 500 miglia memorabile, bisogna anche citare che:
- ha partecipato anche Jean Alesi, qualificandosi in ultima posizione e venendo blackflaggato dopo pochi giri perché la sua vettura era troppo lenta (i motori Lotus, triste sorte in cui Alesi era accomunato con Simona De Silvestro);
- ha partecipato anche Michel Jourdain Jr (pilota di cui ho già abbondantemente parlato nelle puntate precedenti) senza essere notato per nessun motivo particolare;
- alla veneranda età di 40 anni Rubens Barrichello è stato proclamato “rookie of the year” di Indianapolis, salendo al secondo(!!!!) posto dei rookie of the year più vecchi (Lynn St. James nel 1992 di anni doveva averne 45, se non sbaglio).

> La presunta ossessione della Indycar per il numero 37
A Edmonton nel 2012 Charlie Kimball venne penalizzato per un sorpasso irregolare con un “drive through” post gara di 37 secondi. Me ne stupii al punto tale da scriverlo nel mio commento.
Negli anni a venire ho maturato la convinzione che il 37 sia in qualche modo il simbolo della Indycar: le gare iniziano a orari strani, tipo le 14.37 o le 20.37 o cose del genere.

> Conway Street
Il momento clou del 2012 credo che sia avvenuto sul circuito cittadino di Baltimora, dove un’inquadratura successiva a un incidente mostrò Mike Conway in una posizione singolare: stava con l’ala anteriore puntata contro una barriera e con la parte posteriore della vettura in bilico sull’ala posteriore dell’auto di Justin Wilson.
La cosa di per sé sarebbe passata inosservata, se non fossero stati inquadrati i cartelli della viabilità cittadina di Baltimora e non fosse stato notato, tra l’ilarità generale, che il nome di quella via era “Conway Street”.

> Katherine Legge in top-10
Dopo l’abbandono di Danica Patrick destinazione NASCAR e l’impossibilità di Milka Duno e Pippa Mann di accaparrarsi un volante per la stagione, le uniche due donzelle rimaste in pista erano Katherine Legge e Simona De Silvestro (sì, c’ è stata anche Ana Beatriz, ma solo all’inizio della stagione), quest’ultima che dato il motore che si ritrovava avrebbe probabilmente pagato qualunque cifra per fare cambio con una McLaren Honda del 2015, questo giusto per far capire come fosse messa al momento.
La vincitrice dello scontro è stata quindi la Legge, che all’ultima gara stagionale a Fontana ha conquistato anche una top-ten.
Katherine: “Yaaaaayyyyy! Ho vinto io! Il mondo è mio! Andretti è mioooooo!”
Simona: “Eh, no, te lo scordi! Marco appartiene a me!”
Marco: “Milka, aiutami tuuuuuuuuu!”
Katherine: “Milka non c’è più, rassegnati.”
Marco: “Va beh, mi troverò un’altra pseudo-mamma...”
Simona: “Fermalo, Katherine, sta correndo verso il box del team Fisher...”
Tornando a Fontana... gara curiosa, quella di Fontana: era stato in testa anche Alex Tagliani, per alcuni giri, prima di perdere un paio di posizioni e poi rompere il motore. Credo che in quel momento Alex avrebbe preferito di gran lunga giocare a briscola. Che sia quella la ragione del pizzetto simil-Liuzzi?

> It’s Taku-Bitch, the king of Long Beach!
Il momento che aspettavo da tanto tempo è arrivato il 21 Aprile 2013: Takuma Sato ha vinto una gara e io quella gara peraltro me la sono persa per scelta personale, perché volevo rivedermi sulla Rai il gran premio che già avevo visto in streaming quel pomeriggio. Ho acceso il computer soltanto quando la gara era ormai finita, vedendomi gli ultimi giri e assistendo alla cavalcata trionfale del piccolo Taku. Ovviamente la gara l’ho recuperata il giorno dopo e me la sono guardata con immensa gioia.
Torniamo alla questione del “piccolo Taku” e alla filosofia del “it’s little, it’s hot” che tanto va di moda quando si tratta di Sam Bird o Will Stevens (passi il primo che ha posato nudo con un casco davanti alle parti intime, ma nel secondo non ci trovo proprio nulla). Ecco, io mi batterò sempre per la parificazione tra i piloti bassi. Se Stevens è un figo, anche Sato deve essere classificato come tale. La sua biografia ufficiale lo vuole alto 1,62 ed è riuscito nell’eroica impresa di vincere una gara in cui secondo e terzo finirono Rahal (statura: 1,88) e Wilson (statura: 1,93). Nelle foto del podio (sul quale si era portato una bandiera del Giappone), nonostante fosse sul gradino più alto sembrava ancora più piccolo di quando è di fianco a piloti di statura un po’ più standard (non che sia mai stato sul gradino più alto del podio altre volte per fare confronti, ma questi sono dettagli).
C’è di più: Sato andò vicino a vincere anche la gara successiva, in Brasile (dove tutti i brasiliani presenti ebbero una sfiga cosmica, simil-Barrichello a Interlagos), se non che fu costretto ad arrendersi all’ultima curva a Hinchcliffe, con grande gioia delle fangirl che seguivo su twitter all’epoca che evidentemente non erano affascinate da Sato tanto quanto lo erano da Hinchcliffe. Una scrisse addirittura che l’unica ragione per cui si ricordava Sato era che aveva gareggiato in Formula 1 ottenendo gli stessi risultati di Ide. Per cortesia, qualcuno spieghi a questa gente che prima di andare a scrivere su twitter è meglio farsi una cultura e che quantomeno non avere mai sentito nominare Power prima di vedere la Indycar e credere che la Indycar gareggi in Russia non sminuisce i risultati di nessuno.

> Una Indy 500 dal risultato epico!
Quella del 2013 è stata la prima Indy 500 che ho seguito in diretta, collegandomi peraltro un’ora prima della partenza.
Conoscevo già le tradizioni della domenica, ma un conto è vederle a posteriori e un conto è vederle in diretta. Poi sì, ho notato che gli americani sono strani, ma quello lo noto ogni singolo giorno e ormai non ci faccio più caso.
Ovviamente nel corso di quell’ora abbondante si sono viste anche varie interviste registrate per l’occasione di cui una dei Brazilian Bros ha raggiunto il top dei top, in cui veniva raccontata la famosa storiella della loro infanzia che ci era già stata propinata in tutte le salse e ripercorsa la loro carriera, con tanto di vari minuti spesi a parlare di quella volta che avevano litigato via stampa per una manovra da “you have to leave the space” qualcosa come sei o sette anni prima.
Tutta l’attenzione catalizzata su Kanaan deve avergli portato bene, dato che finalmente, al dodicesimo(?) tentativo è riuscito a vincerla!
Per scommessa con Barrichello, dopo la vittoria si è tinto i capelli di biondo (capelli, poi... trovarli sulla testa di Kanaan è come trovare un ago in un pagliaio), mentre Barrichello se li è rasati (nel senso, si è tagliato un po’ il ciuffo copri-stempiatura e nei selfie su twitter diceva di essersi rasato).

> Il trofeo di Bourdais!
Correva l’anno 2013 e il nostro caro Sebbiiii veniva costantemente preso per i fondelli dai telecronisti (curiosità: uno dei telecronisti USA era nientemeno che il suo grande “amico” Paul Tracy... che ci fosse una proporzionalità diretta tra questo e il fatto che veniva preso per i fondelli in telecronaca? XD) perché da quando era tornato in Indycar dopo la parentesi in Toro Rosso non si stava più ripetendo, ottenendo risultati di gran lunga inferiori rispetto all’epoca della Champ Car. Non solo non vinceva, ma non finiva neanche più sul podio...
Poi è arrivato il suo giorno di gloria. Era uno di quei weekend con doppia gara in cui c’era partenza da fermi e successivo “aborted start” perché qualcuno combinava casini o qualche vettura decideva di smettere di funzionare al momento meno opportuno. In un’altra simile occasione, qualche mese prima, Sebbiiii si era messo in mostra ballando la samba e vedendosi lanciare addosso un paio di guanti da un calmissimo (citazione necessaria) Will Power.
Comunque al momento più opportuno Sebastien si è classificato secondo, salendo sul podio e prendendo finalmente in mano un trofeo... era di vetro, un pezzo si è staccato e si è fracassato a terra. Il giorno dopo in gara 2 è arrivato terzo. Stavolta non ha rotto il trofeo. Negli anni successivi è anche riuscito a vincere.

> Il ritorno dell’uomo che sussurrava ai tombini
Perso nella dimensione parallela della Formula 1 e della NASCAR, Juan Pablo Montoya era stato lontano dalle “American open wheels series” fin dal lontano 2000, in cui peraltro aveva trionfato alla 500 miglia di Indianapolis alla sua (finora) unica partecipazione.
La cosa più pittoresca del suo ritorno (oltre ad avere preso parte, nel 2014, a una Indy 500 in cui c’era in pista anche Jacques Villeneuve) è stata un’intervista pre-stagionale che ho visto su youtube. In realtà tutti i piloti più quotati erano intervistati, e veniva chiesto a ciascuno chi riteneva fossero gli avversari più difficili da battere per il titolo.
L’intervista di Montoya si è trasformata in un nanosecondo in un festino brasiliano, quando Montoya è stato raggiunto dal compagno di squadra Castroneves e i due si sono messi a parlare del fatto che Power (altro loro compagno di squadra, tra parentesi) non capisce mai le loro battute, cosa che non mi pare c’entrasse molto con l’intervista.
Per concludere in bellezza è arrivato Kanaan a photobomberare l’intervista, raccontando senza una ragione ben precisa che sua moglie sostiene che Montoya è un uomo attraente e che lui non lo trova altrettanto attraente. Poi, non si sa bene come, Kanaan e Montoya sono finiti a parlare delle dimensioni del naso di Kanaan.

> It’s Pippa, it’s Pink!
A partire dal 2014(?) la vettura di Pippa Mann è rosa, non è chiaro se per via del suo sponsor o per permettere a Marco Andretti di sfuggirle.
Marco: “Basta, Autrice! Perché mi vuoi appioppare tutte le mie colleghe?”
Pippa: “Perché sei il nostro sex symbol preferito, my love.”
Marco: “Okay, corro a nascondermi... il che è esattamente quello che faccio in ogni gara.”

> Incredibile ma vero, Power ha vinto il titolo!
Pluricampione della specialità olimpica dello sventolamento in aria del dito medio, Will Power ha sempre avuto una pecca: essere in grado di trovarsi in testa alla classifica sempre, tranne che nel momento in cui contava. Dopo avere passato gli anni a perdere titoli all’ultima gara a vantaggio di Franchitti, Hunter-Reay e Dixon (in occasione della sfida con quest’ultimo mi è capitato di leggere quel glorioso articolo che ha fatto la storia, in cui si notava che Power e Dixon sembrano nomi di detersivi), poteva puntare a diventare il Fernando Alonso della Indycar.
...Invece no, alla fine del 2014 ha conquistato finalmente il tanto ambito titolo, battendo Castroneves all’ultima gara.
Bonus: Castroneves era stato in testa alla classifica per gran parte della stagione, finendo il campionato in stile Power.
Doppio bonus: nonostante abbia perso il titolo, Castroneves ha continuato a fare il trollone, anche proprio nelle occasioni in cui si è giocato la possibilità di vincere il titolo.

> I rumors su Alexander Rossi
Guess what? Alex Rossi ha impresso il proprio nome anche nella storia della Indycar nell’off-season 2014/2015, in cui foto, rumors e articoli vari lo linkavano al team Coyne.
Ovviamente la cosa non è andata a buon fine e, al posto che avrebbe dovuto occupare lui, abbiamo visto a seconda delle occasioni il nostro connazionale Francesco Dracone e l’ex tester della Marussia Rodolfo Gonzalez.

> Un finale alla “Oh my Monty manholes’ breaker!”
La Indy 500 è una gara che sa essere lunga ed estenuante, ma allo stesso tempo maledettamente intrigante. L’edizione del 2015, iniziata peraltro con un incidente tra Takuma Sato e Sage Karam e proseguita con dei tweet in cui quest’ultimo e suo padre (Karam Sr., avrei scoperto in una successiva telecronaca, è l’ex fisioterapista di Michael Andretti) criticavano l’accaduto, è stata una di quelle che credo di avere vissuto più al cardiopalma di tutte le altre.
L’ha vinta Montoya.
L’ha vinta dopo che all’inizio era precipitato in qualcosa come trentesima(?) posizione.
L’ha vinta a quindici anni di distanza dalla vittoria del 2000.
Non è scoppiato a piangere dopo la vittoria, ma non si può avere tutto dalla vita.
Bonus: nel corso della stagione Montoya è stato protagonista anche di altre eroiche imprese, tipo perdere il titolo per un punto, ma soprattutto essere protagonista di un epico siparietto (in una delle gare che avevano preceduto Indianapolis) in cui alla fine della gara si improvvisava intervistatore e intervistava il compagno di squadra Castroneves.

> Due incidenti tra compagni di squadra in cinque minuti contati
A Detroit, pochi giorni dopo Indianapolis, sia il team Ganassi sia il team Penske si sono fatti notare, a cinque minuti di distanza, con due diversi incidenti tra compagni di squadra: Kimball vs Dixon per il team Ganassi, Power e Castroneves per il team Penske.
Sì, lo so, quando avete letto Penske avevate pensato male, ma per una volta Montoya non c’entra nulla... per una volta.

> Il momento clou del quadriennio
Nel periodo 2012/2015 ci sono stati vari momenti memorabili, ma credo che uno li abbia superati tutti, seppure sia stato irrilevante, dovuto al susseguirsi dei pit-stop e totalmente ininfluente sul risultato finale. Però merita, assolutamente, e merita di non essere dimenticato.
Toronto, 2015. Sulla pista in cui nel 2006 in Champ Car Paul Tracy aveva schivato dei piccioni che per qualche oscura ragione ritenevano sicuro starsene nel bel mezzo dell’asfalto durante un gran premio e in cui nel 2014 in Indycar la safety car era finita in testacoda in una gara bagnata, è accaduto un fatto che dovrebbe entrare negli annali della Indycar.
Ad un tratto abbiamo letto “LEADER: GONZALEZ”. Poi va beh, era su una strategia diversa, è rientrato più tardi ed è arrivato tra gli ultimi, ma intanto è stato in testa a una gara di Indycar.

> Il momento clou del quadriennio andato irreparabilmente perduto
Trigger warning: questo paragrafo contiene menzioni di Paul Tracy, soggettone di cui ho parlato a lungo in post passati.
Avevamo lasciato Paul Tracy a fare il telecronista... e lo fa tuttora.
Per puro caso, qualche tempo fa, ho trovato un articolo risalente allo scorso mese di luglio che lo riguarda, contenente uno scoop epico: dopo circa dieci anni, ha fatto pace con Bourdais.
Nello stesso articolo era citato un siparietto in cui erano entrambi protagonisti, trasmesso dopo una sessione di prove libere.
Su youtube pare non esserci nulla di tutto ciò, il che significa che con tutta probabilità non vedremo mai questo servizio. Ciò non mi aggrada.


Pubblicato anche su F1GC.

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