Ho iniziato a guardare la Indycar nel 2012. Ho iniziato a guardarla perché dopo diciannove anni di assuefazione da Barrichello temevo di andare in crisi di astinenza se non fossi riuscita a guardare un campionato a cui prendeva parte. Insomma, non sarà stata la motivazione migliore per iniziare a seguire la Indycar (senza nulla togliere a Barrichello, anzi ero io che toglievo qualcosa alla Indycar non prendendola in considerazione prima), però sono felice di averlo fatto. All’epoca in cui ero una niubba della Indycar non si contano le cose strane che ho osservato. Giusto per dare un esempio del livello a cui mi sono spinta è un post della vigilia della prima gara stagionale, in cui sul mio blog sostenevo che avrei cercato di vedermi la gara per via della presenza di Barrichello e che la pole position l’aveva ottenuta “un certo Will Power che non ho idea di chi sia”. Okay, prima o poi avrò un incubo in cui Power mi guarda con aria da trollface e mi dice: “Sono un detersivo, proprio come Dixon”... Sarebbe veramente una scena da horror: nella realtà certe cose non accadrebbero mai e vedere Power con aria da trollface invece che col dito medio alzato significa che Power è posseduto dallo spirito di qualche trollone!
La cosa di cui mi vergogno maggiormente, però, è stato
leggere “Grand Prix of St. Petersburg” e avere come primo pensiero “ah, la
Indycar corre in Russia?”... È terribile, lo so!
Ho iniziato a guardare la Indycar a tratti, tra
connessioni che saltavano, gare che mi perdevo perché convertire le ore non è
esattamente il mio forte, orari scomodi e inconsapevolezza che fosse
facilissimo reperire le gare su youtube e vedersele di lì a poco. Quando ho
scoperto quest’ultimo dettaglio mi si è aperto un modo e mi sono messa in pari.
Dal 2013 in poi sono sempre stata in pari.
> Un finale alla “Oh my Taku banzai”
Confessione random: il “piccolo samurai giapponese” era
un mio idolo dal lontano 2005, ma l’avevo perso di vista dopo la sua uscita di
scena dalla Formula 1. Ritrovarmelo in Indycar è stato spettacolare e nel giro
di poco tempo è arrivato a surclassare Barrichello nella mia personale
classifica di preferenze.
Vederlo in lotta per la vittoria a Indianapolis è stato
spettacolare. Sarebbe stato spettacolare anche vederlo in victory lane, credo.
Però in victory lane c’era Franchitti con Ashley Judds al seguito e sembravano
ancora una coppia affiatata, nonostante si siano lasciati soltanto pochi mesi
più tardi. Sato purtroppo era affiatato soltanto con i muri, al momento.
Non è stata la sola presenza di Sato a rendere
quell’edizione della 500 miglia memorabile, bisogna anche citare che:
- ha partecipato anche Jean Alesi, qualificandosi in
ultima posizione e venendo blackflaggato dopo pochi giri perché la sua vettura
era troppo lenta (i motori Lotus, triste sorte in cui Alesi era accomunato con
Simona De Silvestro);
- ha partecipato anche Michel Jourdain Jr (pilota di cui
ho già abbondantemente parlato nelle puntate precedenti) senza essere notato
per nessun motivo particolare;
- alla veneranda età di 40 anni Rubens Barrichello è
stato proclamato “rookie of the year” di Indianapolis, salendo al secondo(!!!!)
posto dei rookie of the year più vecchi (Lynn St. James nel 1992 di anni doveva
averne 45, se non sbaglio).
> La presunta ossessione della Indycar per il numero
37
A Edmonton nel 2012 Charlie Kimball venne penalizzato per
un sorpasso irregolare con un “drive through” post gara di 37 secondi. Me ne
stupii al punto tale da scriverlo nel mio commento.
Negli anni a venire ho maturato la convinzione che il 37
sia in qualche modo il simbolo della Indycar: le gare iniziano a orari strani,
tipo le 14.37 o le 20.37 o cose del genere.
> Conway Street
Il momento clou del 2012 credo che sia avvenuto sul
circuito cittadino di Baltimora, dove un’inquadratura successiva a un incidente
mostrò Mike Conway in una posizione singolare: stava con l’ala anteriore
puntata contro una barriera e con la parte posteriore della vettura in bilico
sull’ala posteriore dell’auto di Justin Wilson.
La cosa di per sé sarebbe passata inosservata, se non
fossero stati inquadrati i cartelli della viabilità cittadina di Baltimora e
non fosse stato notato, tra l’ilarità generale, che il nome di quella via era
“Conway Street”.
> Katherine Legge in top-10
Dopo l’abbandono di Danica Patrick destinazione NASCAR e
l’impossibilità di Milka Duno e Pippa Mann di accaparrarsi un volante per la
stagione, le uniche due donzelle rimaste in pista erano Katherine Legge e
Simona De Silvestro (sì, c’ è stata anche Ana Beatriz, ma solo all’inizio della
stagione), quest’ultima che dato il motore che si ritrovava avrebbe
probabilmente pagato qualunque cifra per fare cambio con una McLaren Honda del
2015, questo giusto per far capire come fosse messa al momento.
La vincitrice dello scontro è stata quindi la Legge, che
all’ultima gara stagionale a Fontana ha conquistato anche una top-ten.
Katherine:
“Yaaaaayyyyy! Ho vinto io! Il mondo è mio! Andretti è mioooooo!”
Simona: “Eh, no, te
lo scordi! Marco appartiene a me!”
Marco: “Milka,
aiutami tuuuuuuuuu!”
Katherine: “Milka
non c’è più, rassegnati.”
Marco: “Va beh, mi
troverò un’altra pseudo-mamma...”
Simona: “Fermalo,
Katherine, sta correndo verso il box del team Fisher...”
Tornando a Fontana... gara curiosa, quella di Fontana:
era stato in testa anche Alex Tagliani, per alcuni giri, prima di perdere un
paio di posizioni e poi rompere il motore. Credo che in quel momento Alex
avrebbe preferito di gran lunga giocare a briscola. Che sia quella la ragione
del pizzetto simil-Liuzzi?
> It’s Taku-Bitch, the king of Long Beach!
Il momento che aspettavo da tanto tempo è arrivato il 21
Aprile 2013: Takuma Sato ha vinto una gara e io quella gara peraltro me la sono
persa per scelta personale, perché volevo rivedermi sulla Rai il gran premio
che già avevo visto in streaming quel pomeriggio. Ho acceso il computer
soltanto quando la gara era ormai finita, vedendomi gli ultimi giri e
assistendo alla cavalcata trionfale del piccolo Taku. Ovviamente la gara l’ho
recuperata il giorno dopo e me la sono guardata con immensa gioia.
Torniamo alla questione del “piccolo Taku” e alla
filosofia del “it’s little, it’s hot” che tanto va di moda quando si tratta di
Sam Bird o Will Stevens (passi il primo che ha posato nudo con un casco davanti
alle parti intime, ma nel secondo non ci trovo proprio nulla). Ecco, io mi
batterò sempre per la parificazione tra i piloti bassi. Se Stevens è un figo,
anche Sato deve essere classificato come tale. La sua biografia ufficiale lo
vuole alto 1,62 ed è riuscito nell’eroica impresa di vincere una gara in cui secondo
e terzo finirono Rahal (statura: 1,88) e Wilson (statura: 1,93). Nelle foto del
podio (sul quale si era portato una bandiera del Giappone), nonostante fosse
sul gradino più alto sembrava ancora più piccolo di quando è di fianco a piloti
di statura un po’ più standard (non che sia mai stato sul gradino più alto del
podio altre volte per fare confronti, ma questi sono dettagli).
C’è di più: Sato andò vicino a vincere anche la gara
successiva, in Brasile (dove tutti i brasiliani presenti ebbero una sfiga
cosmica, simil-Barrichello a Interlagos), se non che fu costretto ad arrendersi
all’ultima curva a Hinchcliffe, con grande gioia delle fangirl che seguivo su
twitter all’epoca che evidentemente non erano affascinate da Sato tanto quanto
lo erano da Hinchcliffe. Una scrisse addirittura che l’unica ragione per cui si
ricordava Sato era che aveva gareggiato in Formula 1 ottenendo gli stessi
risultati di Ide. Per cortesia, qualcuno spieghi a questa gente che prima di
andare a scrivere su twitter è meglio farsi una cultura e che quantomeno non
avere mai sentito nominare Power prima di vedere la Indycar e credere che la
Indycar gareggi in Russia non sminuisce i risultati di nessuno.
> Una Indy 500 dal risultato epico!
Quella del 2013 è stata la prima Indy 500 che ho seguito
in diretta, collegandomi peraltro un’ora prima della partenza.
Conoscevo già le tradizioni della domenica, ma un conto è
vederle a posteriori e un conto è vederle in diretta. Poi sì, ho notato che gli
americani sono strani, ma quello lo noto ogni singolo giorno e ormai non ci
faccio più caso.
Ovviamente nel corso di quell’ora abbondante si sono
viste anche varie interviste registrate per l’occasione di cui una dei
Brazilian Bros ha raggiunto il top dei top, in cui veniva raccontata la famosa
storiella della loro infanzia che ci era già stata propinata in tutte le salse
e ripercorsa la loro carriera, con tanto di vari minuti spesi a parlare di
quella volta che avevano litigato via stampa per una manovra da “you have to
leave the space” qualcosa come sei o sette anni prima.
Tutta l’attenzione catalizzata su Kanaan deve avergli
portato bene, dato che finalmente, al dodicesimo(?) tentativo è riuscito a
vincerla!
Per scommessa con Barrichello, dopo la vittoria si è
tinto i capelli di biondo (capelli, poi... trovarli sulla testa di Kanaan è
come trovare un ago in un pagliaio), mentre Barrichello se li è rasati (nel
senso, si è tagliato un po’ il ciuffo copri-stempiatura e nei selfie su twitter
diceva di essersi rasato).
> Il trofeo di Bourdais!
Correva l’anno 2013 e il nostro caro Sebbiiii veniva
costantemente preso per i fondelli dai telecronisti (curiosità: uno dei
telecronisti USA era nientemeno che il suo grande “amico” Paul Tracy... che ci
fosse una proporzionalità diretta tra questo e il fatto che veniva preso per i
fondelli in telecronaca? XD) perché da quando era tornato in Indycar dopo la
parentesi in Toro Rosso non si stava più ripetendo, ottenendo risultati di gran
lunga inferiori rispetto all’epoca della Champ Car. Non solo non vinceva, ma
non finiva neanche più sul podio...
Poi è arrivato il suo giorno di gloria. Era uno di quei
weekend con doppia gara in cui c’era partenza da fermi e successivo “aborted
start” perché qualcuno combinava casini o qualche vettura decideva di smettere
di funzionare al momento meno opportuno. In un’altra simile occasione, qualche
mese prima, Sebbiiii si era messo in mostra ballando la samba e vedendosi
lanciare addosso un paio di guanti da un calmissimo (citazione necessaria) Will
Power.
Comunque al momento più opportuno Sebastien si è
classificato secondo, salendo sul podio e prendendo finalmente in mano un
trofeo... era di vetro, un pezzo si è staccato e si è fracassato a terra. Il
giorno dopo in gara 2 è arrivato terzo. Stavolta non ha rotto il trofeo. Negli
anni successivi è anche riuscito a vincere.
> Il ritorno dell’uomo che sussurrava ai tombini
Perso nella dimensione parallela della Formula 1 e della
NASCAR, Juan Pablo Montoya era stato lontano dalle “American open wheels
series” fin dal lontano 2000, in cui peraltro aveva trionfato alla 500 miglia
di Indianapolis alla sua (finora) unica partecipazione.
La cosa più pittoresca del suo ritorno (oltre ad avere
preso parte, nel 2014, a una Indy 500 in cui c’era in pista anche Jacques
Villeneuve) è stata un’intervista pre-stagionale che ho visto su youtube. In
realtà tutti i piloti più quotati erano intervistati, e veniva chiesto a
ciascuno chi riteneva fossero gli avversari più difficili da battere per il
titolo.
L’intervista di Montoya si è trasformata in un
nanosecondo in un festino brasiliano, quando Montoya è stato raggiunto dal
compagno di squadra Castroneves e i due si sono messi a parlare del fatto che
Power (altro loro compagno di squadra, tra parentesi) non capisce mai le loro
battute, cosa che non mi pare c’entrasse molto con l’intervista.
Per concludere in bellezza è arrivato Kanaan a
photobomberare l’intervista, raccontando senza una ragione ben precisa che sua
moglie sostiene che Montoya è un uomo attraente e che lui non lo trova
altrettanto attraente. Poi, non si sa bene come, Kanaan e Montoya sono finiti a
parlare delle dimensioni del naso di Kanaan.
> It’s Pippa, it’s Pink!
A partire dal 2014(?) la vettura di Pippa Mann è rosa,
non è chiaro se per via del suo sponsor o per permettere a Marco Andretti di
sfuggirle.
Marco: “Basta,
Autrice! Perché mi vuoi appioppare tutte le mie colleghe?”
Pippa: “Perché sei
il nostro sex symbol preferito, my love.”
Marco: “Okay, corro
a nascondermi... il che è esattamente quello che faccio in ogni gara.”
> Incredibile ma vero, Power ha vinto il titolo!
Pluricampione della specialità olimpica dello
sventolamento in aria del dito medio, Will Power ha sempre avuto una pecca:
essere in grado di trovarsi in testa alla classifica sempre, tranne che nel
momento in cui contava. Dopo avere passato gli anni a perdere titoli all’ultima
gara a vantaggio di Franchitti, Hunter-Reay e Dixon (in occasione della sfida
con quest’ultimo mi è capitato di leggere quel glorioso articolo che ha fatto
la storia, in cui si notava che Power e Dixon sembrano nomi di detersivi),
poteva puntare a diventare il Fernando Alonso della Indycar.
...Invece no, alla fine del 2014 ha conquistato
finalmente il tanto ambito titolo, battendo Castroneves all’ultima gara.
Bonus: Castroneves era stato in testa alla classifica per
gran parte della stagione, finendo il campionato in stile Power.
Doppio bonus: nonostante abbia perso il titolo,
Castroneves ha continuato a fare il trollone, anche proprio nelle occasioni in
cui si è giocato la possibilità di vincere il titolo.
> I
rumors su Alexander Rossi
Guess
what? Alex Rossi ha impresso il proprio nome anche nella storia della
Indycar nell’off-season 2014/2015, in cui foto, rumors e articoli vari lo
linkavano al team Coyne.
Ovviamente la cosa non è andata a buon fine e, al posto
che avrebbe dovuto occupare lui, abbiamo visto a seconda delle occasioni il
nostro connazionale Francesco Dracone e l’ex tester della Marussia Rodolfo
Gonzalez.
> Un
finale alla “Oh my Monty manholes’ breaker!”
La Indy 500 è una gara che sa essere lunga ed estenuante,
ma allo stesso tempo maledettamente intrigante. L’edizione del 2015, iniziata
peraltro con un incidente tra Takuma Sato e Sage Karam e proseguita con dei
tweet in cui quest’ultimo e suo padre (Karam Sr., avrei scoperto in una
successiva telecronaca, è l’ex fisioterapista di Michael Andretti) criticavano
l’accaduto, è stata una di quelle che credo di avere vissuto più al cardiopalma
di tutte le altre.
L’ha vinta Montoya.
L’ha vinta dopo che all’inizio era precipitato in
qualcosa come trentesima(?) posizione.
L’ha vinta a quindici anni di distanza dalla vittoria del
2000.
Non è scoppiato a piangere dopo la vittoria, ma non si
può avere tutto dalla vita.
Bonus: nel corso della stagione Montoya è stato
protagonista anche di altre eroiche imprese, tipo perdere il titolo per un
punto, ma soprattutto essere protagonista di un epico siparietto (in una delle
gare che avevano preceduto Indianapolis) in cui alla fine della gara si
improvvisava intervistatore e intervistava il compagno di squadra Castroneves.
> Due incidenti tra compagni di squadra in cinque
minuti contati
A Detroit, pochi giorni dopo Indianapolis, sia il team
Ganassi sia il team Penske si sono fatti notare, a cinque minuti di distanza,
con due diversi incidenti tra compagni di squadra: Kimball vs Dixon per il team
Ganassi, Power e Castroneves per il team Penske.
Sì, lo so, quando avete letto Penske avevate pensato
male, ma per una volta Montoya non c’entra nulla... per una volta.
> Il momento clou del quadriennio
Nel periodo 2012/2015 ci sono stati vari momenti
memorabili, ma credo che uno li abbia superati tutti, seppure sia stato
irrilevante, dovuto al susseguirsi dei pit-stop e totalmente ininfluente sul
risultato finale. Però merita, assolutamente, e merita di non essere dimenticato.
Toronto, 2015. Sulla pista in cui nel 2006 in Champ Car
Paul Tracy aveva schivato dei piccioni che per qualche oscura ragione
ritenevano sicuro starsene nel bel mezzo dell’asfalto durante un gran premio e
in cui nel 2014 in Indycar la safety car era finita in testacoda in una gara
bagnata, è accaduto un fatto che dovrebbe entrare negli annali della Indycar.
Ad un tratto abbiamo letto “LEADER: GONZALEZ”. Poi va
beh, era su una strategia diversa, è rientrato più tardi ed è arrivato tra gli
ultimi, ma intanto è stato in testa a una gara di Indycar.
> Il momento clou del quadriennio andato
irreparabilmente perduto
Trigger warning: questo paragrafo contiene menzioni di
Paul Tracy, soggettone di cui ho parlato a lungo in post passati.
Avevamo lasciato Paul Tracy a fare il telecronista... e
lo fa tuttora.
Per puro caso, qualche tempo fa, ho trovato un articolo
risalente allo scorso mese di luglio che lo riguarda, contenente uno scoop
epico: dopo circa dieci anni, ha fatto pace con Bourdais.
Nello stesso articolo era citato un siparietto in cui
erano entrambi protagonisti, trasmesso dopo una sessione di prove libere.
Su youtube pare non esserci nulla di tutto ciò, il che
significa che con tutta probabilità non vedremo mai questo servizio. Ciò non mi
aggrada.
Pubblicato anche su F1GC.
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