giovedì 1 agosto 2019

Il numero due del numero due

Vent'anni sono tanti e gli aneddoti si accumulano al punto tale che non sono sicura di potere stabilire con certezza che cosa sentii dire. Ho un vago ricordo di qualche vicino di casa che commentava l'evento, mentre ero in cortile, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Ricordo vagamente una di quelle conversazioni abbastanza ignoranti a tematica Formula 1, dove per "com'è andato il gran premio?" si chiede "cos'hanno fatto le Ferrari?"... anzi, cos'ha fatto LA Ferrari, quella del pilota di punta.
Ricordo qualcosa di questo tipo: "Cos'ha fatto la Ferrari oggi?" "Ha vinto perché il suo compagno di squadra l'ha fatto passare".
Al di là del poco senso di questa affermazione senza l'opportuna interpretazione, ricordo che non vi diedi tanto peso: un pilota che lasciava passare un altro in nome di un bene superiore era qualcosa con cui in realtà non avevo molto a che fare vista l'epoca. Affinché succeda ci vuole anche una seconda guida che ogni tanto si trovi in testa nel momento in cui il top driver è secondo, cosa che non era così tanto scontata a quei tempi.

Il bene superiore era quel mondiale che la Ferrari aspirava a vincere e che, per cause di forza maggiore, aspirava a vincere con Eddie Irvine. In quella conversazione "la Ferrari" non era altri che il futuro jaguarista dai capelli ossigenati (o per meglio dire, dai capelli futuro-ossigenati).
Irvine non era uno a cui si dava tutta questa importanza. Era una seconda guida e neanche una di quelle seconde guide capaci di stare costantemente al centro dell'attenzione. Si parlava di lui più per il gossip che per i risultati sportivi... eppure in quell'estate del 1999 l'obiettivo dichiarato era quello di puntare al titolo mondiale e Irvine.
Non era visto come il salvatore della patria, ma solo come una parte del tutto: se la Ferrari voleva quel mondiale, l'unica alternativa possibile era che a vincerlo fosse lui, anche se pianificava di andarsene a fine stagione, anche se fino a Silverstone aveva vinto una sola gara in carriera.

Se Eddie Irvine era in Ferrari come numero due, Mika Salo era il numero due del numero due, non certo la migliore delle prospettive.
Quando quel primo agosto di vent'anni fa si ritrovò in testa a Hockenheim, per una serie di circostanze particolari, avrebbe avuto bisogno che il suo compagno di squadra non fosse in pista oppure che tra di loro ci fosse un abisso con molte vetture e l'impossibilità di invertire le posizioni in un qualche modo.
Non andò così: non appena Salo si ritrovò in testa, la realtà si manifestò per quella che era. Irvine era secondo, in quel momento, e non sarebbe rimasto secondo per più di un minuto o due.
Il triste destino di Salo era quello di farsi da parte, ma non solo. Il suo destino era quello di farsi da parte e di non avere mai più la possibilità di lottare per la vittoria di un gran premio di Formula 1, possibilità che invece altri piloti che hanno ceduto posizioni ai loro compagni di squadra hanno spesso avuto prima o dopo.
Degli altri se ne parla, di Salo non se ne parla quasi mai, come se quell'evento non fosse mai accaduto, come se Salo non fosse stato, per lo spazio temporale di tre mesi, un pilota Ferrari.


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