"E poi ti ho perduto nell'alba gelata di ottobre
Non c'era giorno migliore"
- Laura Pausini, "Frasi a metà"
Il venerdì, a quei tempi, era per me un giorno bellissimo. Non solo era l'ultimo giorno di lavoro della settimana, ma spesso il mio capo, che di fatto aveva un contratto da collaboratore esterno, al venerdì non veniva al lavoro. Per quanto ai tempi nutrisse una certa stima nei miei confronti, almeno come segretaria, ero felice di non averlo intorno. Era nella scrivania accanto alla mia, alle 8.30 quando arrivavo al lavoro lo trovavo già intento a imprecare al telefono, e il pomeriggio consisteva nell'attendere con pazienza il momento in cui sarebbe andato via. Per fortuna si fidava di me abbastanza da andarsene abbastanza presto, ma era sempre bello quando mancava per l'intera giornata: di fatto facevo le stesse cose, ma generalmente non avevo mal di testa.
Alle 17.00 uscii dal lavoro e andai a casa. Lavoravo a tre passi da casa, ai tempi. Alle 17.15/17.20 ero già arrivata. Mi misi a fare un po' di pulizie, pensando che mia madre ne sarebbe stata soddisfatta. Quando arrivò a casa mi chiese come mai mi fossi messa a fare le pulizie quel tardo pomeriggio quando c'era tutto il giorno seguente. Dentro di me pensai che il giorno seguente il mio principale pensiero sarebbero state le qualifiche della Formula 1. Ero su di giri come non mai, mentre si avvicinava quel weekend, per vari motivi. Quello personale era che l'azienda per la quale lavoravo ai tempi stava andando a rotoli ed esserne lontana almeno per due giorni era comunque positivo. Quello non personale era appunto il gran premio imminente, con ogni suo strascico. Si parlava di Alonso che stava per lasciare la Ferrari e c'era qualcosa che, inconsapevolmente, mi stava facendo vedere la luce.
Poi arrivò il sabato. Arrivarono quelle qualifiche viste in differita, che a pensarci bene mi avrebbero consentito tranquillamente di fare le pulizie alla mattina, oppure nel pomeriggio dopo la replica sulla Rai. Arrivò Mazzoni che dichiarò che Kvyat avrebbe preso il posto di Vettel in Redbull nella stagione seguente.
Rimasi folgorata dal significato che quell'affermazione aveva. Fare due più due era facile anche per me, che non avevo pensato, fino a quel momento, nemmeno per un attimo, che Vettel potesse prendere il posto di Alonso in Ferrari se questo se ne fosse andato. Era capitato tutto molto in fretta: fino a poco tempo prima si parlava di Alonso in Ferrari vita natural durante, non del fatto che volesse andare via, e comunque non avevo fatto quel pensiero. Non mi ero chiesta se Vettel avrebbe lasciato la Redbull alla fine di quella stagione e per andare dove e, anche se l'avesse fatto, erano più altre le destinazioni a cui avrei pensato: in McLaren, per esempio, dove c'era Button del cui ipotetico ritiro si parlava da anni, dove c'era Magnussen che non convinceva al punto tale da spingere il team a confermarlo per la stagione a venire, oppure in Williams, che all'epoca stazionava intorno alla terza piazza nella classifica costruttori e in cui c'era Massa di cui, ugualmente, si parlava da anni di un ipotetico ritiro, in cui c'era Bottas che avrebbe potuto passare a un altro team... Ci rimasi malissimo, per Kvyat in Redbull, perché aveva un significato solo e non era il significato che avrei gradito sentire quel giorno.
Credo che sia opportuno, a questo punto, un piccolo disclaimer. Probabilmente in questi anni sarò sembrata al limite del borderline, nell'esprimere attaccamento altalenante nei confronti di squadre o piloti, nel prendermi a cuore le sorti di molti diseredati, nello smentire affermazioni poco sensate...
Il fatto è che non sono borderline. Semplicemente non sono nata ferrarista e non ho mai vissuto la Ferrari come qualcosa che dovevo tifare per forza. Ho sempre provato più attaccamento per l'individuo che per la squadra e soprattutto più attaccamento per lo sport in sé che per la squadra. L'avere iniziato a seguire altri campionati, qualche anno prima di quei giorni, ha contribuito ad aprirmi la mente. Mi capita anche adesso di guardare qualcosa di nuovo, di tanto in tanto, di guardare campionati che seguo soltanto occasionalmente oppure campionati minori in cui ci sono anche tanti esordienti di cui non ho mai sentito parlare prima di iniziare a seguire un certo campionato. Il primo campionato di Indycar che seguii, in un modo o nell'altro, anche se non con l'attenzione attuale, era quello del 2012. Vinse Ryan Hunter-Reay, dopo che Will Power era stato in testa alla classifica durante la stagione. Prima di iniziare a seguire il campionato di Indycar, perdonatemi per l'ignoranza, non avevo la più pallida idea di chi fossero RHR e Power, conoscevo solo Barrichello, Sato, Bourdais e Wilson che erano stati in Formula 1, oltre che Kanaan, Castroneves e Ana Beatriz perché partecipavano alla Desafio das Estrelas. Ovviamente non tifavo nessuno, soprattutto tra i piloti che potevano vincere il titolo. Se parlavo con qualcuno di Indycar, a questi non importava un fico secco del fatto che non tifassi nessuno. Era un bel progresso, considerando che relativamente alla Formula 1 chattando con dei ragazzi che avevo conosciuto su un forum che visitavo ogni tanto mi dissero che il forum che moderavo era ridicolo perché avevo scelto come immagine profilo una foto di Massa in tuta verde e di conseguenza "non era un forum su cui si parlava di piloti seri".
Cresciuta in un'epoca in cui la gente faceva l'associazione Ferrari = santihhhh subitohhhh, McLaren = kriminalihhhh (tranne Suzuka 1990, là evidentemente il mondo funzionava al contrario) era sorta in me la consapevolezza che la scelta fosse tra loro, oppure tra i loro piloti. Non sono mai stata vicinissima alla Ferrari, ai tempi. Tifavo Felipe Massa perché aveva qualcosa che mi attirava e credo che sia stato lui a farmi capire che i piloti e il team non sempre si completano a vicenda. Massa e la Ferrari avrebbero dovuto lasciarsi molto prima, sarebbe stato meglio per tutti, era questo che pensavo, anche se non sarebbe stato un avversario della Ferrari, anche se non avrebbe mai più potuto pensare di lottare per un mondiale. Ma dopotutto era meglio ottenere risultati da Williams in Williams piuttosto che ottenere risultati da Williams (non quella del 2014) in Ferrari. Fu un piacere vederlo ricostruirsi un'immagine positiva, ma sapevo che la Formula 1 è un mondo che va avanti in fretta.
Quando fu chiaro che Alonso se ne sarebbe andato, mi misi a lavorare in fretta, prendendo per accurati dei rumour che non lo erano. Si vociferava che Jules Bianchi potesse essere il suo successore e ne sarei stata molto felice. Era il leader dei team dei poveri, era quello che aveva portato la Marussia sul tetto del mondo, era quello che si era infilato tra Kobayashi e le barriere della Rascasse invece di limitarsi a sbraitare alla radio che Kobayashi avrebbe dovuto smettere di ostacolarlo, come invece succedeva davanti o ai piloti che lottavano per il podio.
Mi sarebbe dispiaciuto molto vedere un pilota come lui lasciare il team che avevo "adottato", ma sapevo che, se era per la Ferrari, ne valeva la pena. Ero affezionata sia a lui sia al team per il quale gareggiava, ma a maggior ragione nel suo caso avevo sempre saputo che ci sarebbe stato dell'altro, prima o poi.
La notte tra sabato e domenica andai a ballare, pronta a dormire pochissimo. Non avevo visto le qualifiche in diretta, ma la gara sì e non mi importava dormire poche ore, c'era sempre tempo per tornare a dormire.
Pensavo ancora a Kvyat. Pensavo alla Redbull che promuoveva i piloti del proprio junior team, mentre la Ferrari non faceva altrettanto, magari talvolta abbandonandoli a se stessi. Pensavo che comunque c'era ancora speranza, che forse un giorno Bianchi avrebbe preso il posto di Raikkonen e che potevo ancora essere la persona più felice del mondo. Chissà, magari poteva addirittura vincere con una Ferrari a Montecarlo, un giorno, o qualsiasi altro gran premio. Non mi importava che potesse essere una seconda guida, un'unica vittoria, un giorno, mi sarebbe bastata, ne ero certa.
Poi venne la domenica, che con le sue condizioni meteo proibitive sembrava dopotutto una domenica normale. Il mio pensiero era che, se Massa avesse vinto quella gara, avrebbe battuto il record di vittorie intercorse tra una vittoria e l'altra (record che invece ha battuto Raikkonen l'anno scorso), ma che quello scenario era impossibile. Le Marussia e la sola Caterham ancora in pista erano nelle retrovie, ignorate da tutto e da tutti, tranne il momento in cui durante il giro dei pitstop, nella prima parte di gara, Bianchi era stato tra gli ultimi a rientrare risalendo per un attimo fino al terzo posto. Avevo addirittura fatto uno screenshot e l'avevo postato su Twitter.
Poi Sutil finì fuori e tutto continuò come se niente fosse. Poco dopo le inquadrature della zona dell'incidente riportavano come didascalia il nome di Bianchi invece del suo. Nei distacchi lo si era visto precipitare giù.
Quello che accadde dopo appariva quasi come irreale. Si iniziava a parlare della dinamica dell'incidente, quella dinamica alla quale Martin Brundle era sopravvissuto vent'anni prima, in condizioni analoghe, nello stesso tratto del circuito, per avere avuto la freddezza di premere sull'acceleratore nel tentativo di deviare la traiettoria della propria monoposto.
Ciò che mi spaventò davvero non fu il sentire parlare della dinamica. Dire che una vettura aveva colpito un trattore poteva significare tutto o niente. Poteva essere un contatto di striscio, oppure poteva avere impattato contro una ruota del trattore stesso... Anche la bandiera rossa di per sé non significava molto, se non che era impossibile proseguire oltre e che essendo stato completato il 75% della gara era stato deciso di chiuderla lì, specie in condizioni di visibilità sempre più basse.
Però l'ho detto, mi ha sempre colpito di più l'aspetto umano. Quando vidi i primi tre classificati nella sala dietro al podio, compresi fino in fondo che non c'era niente di positivo nell'aria. Rosberg era l'unico girato verso la telecamera e aveva uno sguardo sconvolto. Hamilton e Vettel erano girati dall'altra parte, entrambi a contemplare il nulla per un periodo di tempo che sembrava infinito. Allora, in quel momento, compresi fino in fondo che dopotutto avere un volante in un top-team non era così importante e che diamo sempre per scontate troppe cose, quando guardiamo un gran premio: che nessuno si farà male, che nessuno morirà, che a nessun pilota di età inferiore ai quarant'anni venga mai da pensare che non glielo fa fare nessuno di continuare a gareggiare quando non sa nemmeno se tornerà sempre a casa vivo.
Purtroppo non solo il destino di Bianchi era quello di non guidare nemmeno la Sauber che a quanto pareva l'aveva ingaggiato per il 2015, ma era anche quello di essere lui quello che non sarebbe tornato a casa vivo. Fregatura nella fregatura, non gli toccò nemmeno una morte rapida, e passarono nove mesi tra il momento in cui chiuse gli occhi e quello in cui il suo cuore smise di battere. Era il 17 luglio, 17 come il suo numero di gara, 7 come il numero che per sua dichiarazione avrebbe scelto se fosse stato disponibile. Era un particolare piuttosto creepy (ma, al giorno d'oggi, è ancora più creepy pensare al fatto che quel 17.07 si è ripetuto, essendo l'orario - cfr. comunicato ufficiale FIA - in cui lo scorso 31 agosto è avvenuto l'incidente che è costato la vita ad Anthoine Hubert in Formula 2).
Il non avere mai saputo quello che sarebbe successo altrimenti mi ha impedito, nel corso degli anni, di avere una posizione ben precisa nei confronti della Ferrari. È il team che forse l'avrebbe ingaggiato, o forse il team che per questioni commerciali ha detto, dopo la sua morte, che l'avrebbe fatto.
Non è stato facile, in questi anni, pensare al suo destino incompiuto. Tante cose non sono state facili, nemmeno vedere Alex Rossi, colui che doveva prendere il suo posto alla Marussia, vincere la Indy 500 nel 2016. Me lo chiesi: ma se questo era semplicemente la sua riserva, quale futuro avrebbe potuto avere lui?
Non ho mai creduto che un giorno potesse diventare uno dei nomi di primo livello della Forula 1, ma ho sempre pensato che un giorno potesse darmi qualche gioia. Ho finito per affezionarmi al suo pupillo Leclerc, oppure ho VOLUTO farlo, perché avevo l'illusione che quel destino incompiuto fosse stato, seppure indirettamente, completato. Poi quattro settimane fa, seduta da sola nel soggiorno di casa di mia nonna, ho visto Leclerc vincere il gran premio d'Italia e ho finalmente capito che si trattava soltanto di una stupida illusione: un destino incompiuto rimane sempre un destino incompiuto, senza che ci siano "rimpiazzi".
Ci sono piloti ai quali sono stata affezionata che gareggiano ancora da qualche parte e sono ancora affezionata a loro, ma spero che non ce ne saranno mai altri, tra quelli nuovi.
Ho visto un pilota al quale tenevo tanto sopravvivere a un incidente solo per poi vedere, qualche anno più tardi, un altro pilota al quale tenevo fare una fine così triste. E alla fine la cosa più triste è che magari la prossima volta sarà qualcuno a cui non tenevo così tanto, che magari ignoravo... ma che in fondo, una prossima volta, ci sarà sempre, per quanto lontana nel tempo.
MILLY SUNSHINE // Mentre la Formula 1 dei "miei tempi" diventa vintage, spesso scrivo di quella ancora più vintage. Aspetto con pazienza le differite di quella attuale, ma sogno ancora uno "scattano le vetture" alle 14.00 in punto. I miei commenti ironici erano una parodia della realtà, ma la realtà sembra sempre più una parodia dei miei commenti ironici. Sono innamorata della F1 anni '70/80, anche se agli albori del blog ero molto anni '90. Scrivo anche di Indycar, Formula E, formule minori.
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Milly Sunshine