lunedì 2 agosto 2021

Il Delirio dell'Arcobaleno: blog novel - Puntata n.3

Fuga e ritorno - terza puntata, nella quale viene approfondito il passato di Dalia Herrera nel motorsport, nonché il suo riavvicinarsi alla serie dalla quale ha fatto tanto per allontanarsi in passato.
Dalia non è la sola a rientrare in Golden League: ha avuto una simile opportunità anche Karl Dobson, suo accanito avversario in un altro campionato. L'antipatia reciproca tra i due è cosa certa, così come il fatto che entrambi abbiano avuto buone ragioni per cambiare campionato in passato...

Buona lettura!


Dalia non poteva negare che Grace Kissinger, nonostante scrivesse per il sito di Golden League Racing, che non era sicuramente la migliore fonte di informazione esistente, fosse professionale anche in quella sua seconda occupazione.
L’articolo che sintetizzava la sua carriera, realizzato grazie a una lunga videochiamata, era stato pubblicato nella migliore possibile delle forme, e non doveva essere stato un lavoro facile per Grace salvare il salvabile da quella che era stata più una conversazione tra conoscenti che lavorano nello stesso settore, piuttosto che una vera intervista.
“Inoltre, quando parlo, è un po’ un casino starmi dietro.”
Grace sembrava non avere avuto alcun genere di problema e ciò che aveva pubblicato sul sito web si stava rivelando una piacevole lettura.

**GK - Partiamo dagli albori della tua carriera internazionale. La tua prima stagione, in Silver League, ti ha lanciata verso il successo. Al giorno d’oggi, come vedi quell’esperienza?
DH - L’anno in Silver League mi ha lanciata verso il successo, è esatto. Era una scommessa, per l’esattezza una scommessa le cui probabilità di vittoria erano molto basse: non solo ogni anno molti piloti della Silver League, per quanto talentuosi, non riescono ad avere il successo sperato, ma soprattutto all’epoca la Silver League era appena agli esordi [era la seconda stagione del campionato, n.d.A.] e non c’erano molte garanzie. Inoltre avevo appena diciotto anni e, a diciotto anni, non ero particolarmente matura. Mi sorprende di non avere mai fatto nulla che mandasse a monte la mia carriera. Forse il fatto di essere terrorizzata dall’idea di dovere tornare in Sudamerica (ero abbastanza conosciuta, a livello locale, mentre a livello internazionale ero al momento piuttosto anonima) mi ha spinta a dare il meglio di me. Ho avuto la fortuna di non sentire troppa pressione: la Silver League era poco più che agli esordi.**

«La Silver League era poco più che agli esordi e...»
Dalia si interruppe.
«E...?» la esortò Grace.
Dalia alzò le spalle.
«Niente, non scrivere altro.»
«Ma c’è dell’altro» obiettò Grace. «Ho capito benissimo che volevi aggiungere qualcosa. Puoi dirlo. Al massimo lo sistemo un po’, prima di trascriverlo.»
Dalia scosse la testa.
«No. Questa deve essere un’intervista sulla mia carriera, non voglio rivangare il passato. In confidenza te lo posso dire: mentre io disputavo la mia stagione in Silver League, l’attenzione era molto più focalizzata su quello che era successo al povero Harris, piuttosto che su di me, nonostante all’epoca ci fosse stato qualche accenno alla mia relazione con Ethan. Mi raccomando, non scrivere niente di tutto ciò.»
«No, figurati» la rassicurò Grace. «Non voglio fare del gossip, soprattutto a proposito di un fatto del genere e proprio adesso che Ethan è stato ufficializzato al team Corujas Blancas.» Accennò un sorriso. «Posso dire una cosa, comunque?»
Dalia sospirò.
«Fai pure.»
«Non riesco a immaginare te e Ethan Harris insieme.»
«Avevo diciassette anni quando mi sono messa insieme a lui. A quell’età non avevo ancora le idee molto chiare.»

**GK - Dopo la Silver League, la maggior parte dei piloti puntano alla Golden League. Tu, invece, sei “emigrata” in Giappone. Perché hai fatto questa scelta?
DH - Non sempre siamo noi a fare delle scelte: a volte sono le circostanze che scelgono al posto nostro.
Durante il mio anno in Silver League le cose sono andate abbastanza bene: ho ottenuto due vittorie, mi sono ritrovata al quarto posto nella classifica generale, avrei potuto essere confermata per la stagione a venire...
Molti piloti l’hanno fatto. Alcuni hanno atteso un anno o due in più e poi sono arrivati in Golden League. Altri sono rimasti in Silver League a marcire finché non sono stati reputati troppo vecchi. La maggior parte di loro hanno in Golden League non ci sono mai arrivati.
Avrei potuto rimanere in Silver League con il serio rischio di non riuscire a sfondare... e l’avrei fatto, se non avessi ricevuto un’ottima offerta nella Nippon Series.
Primo anno: ottimi risultati, mai veramente tra i primi, perché non ero in un team di prima fascia.
Secondo anno: nuova squadra, vittoria del titolo.
Terzo anno: stessa squadra, vittoria di un altro titolo.
Quarto anno: stessa squadra, offerta per debuttare in Golden League l’anno seguente, titolo sfiorato, grazie alla brillante idea di Koji [Yoshimoto, n.d.A.] di buttarmi fuori quando ormai la stagione era finita.**

Dalia rise.
«Koji è un tipo strano. In realtà è strano anche al volante. Se sapesse usare contemporaneamente l’acceleratore e il cervello, a quest’ora sarebbe il pilota più titolato di tutti i tempi e tutti lo porterebbero su un piedistallo. Invece no, l’unica cosa che gli riesce bene è mettersi nei casini. Il fatto di essere un tipo solare e simpatico è sempre stato un vantaggio, per lui. Al posto di Koji, chiunque altro, almeno di tanto in tanto, verrebbe inseguito da gente inferocita armata di mazza da baseball. Invece Koji no, perché tutti lo adorano incondizionatamente. Di fatto non è cambiato per niente, da quando ci siamo giocati il titolo in Giappone. Allora aveva diciotto anni, adesso ne ha trentuno, ma è rimasto sempre lo stesso.»
Grace si unì alle risate di Dalia.
«Koji è fantastico. Adoro lavorare in un team in cui c’è uno come lui.»
«Sono certa che anche lui adori stare in squadra con te» confermò Dalia. «Mitch dice sempre che uno dei motivi principali per cui non può fare a meno di fare danni è che preferisce pensare alle tue curve piuttosto che a quelle dei circuiti. Si sorprende solo che Koji non ti abbia mai chiesto di uscire insieme a lui.»
Grace le strizzò un occhio.
«Chi ti dice che non l’abbia mai fatto? Magari sono io che gli ho detto di no.»
«Se dovessi cambiare idea» le suggerì Dalia, «E dovessi accettare di andare con lui da qualche parte, mi raccomando, non lasciarlo guidare.»

**GK - Qual è stato il tuo momento migliore in Giappone? E quello peggiore?
DH - Per quanto possa sembrare strano il momento migliore non coincide con uno dei due titoli. È stato durante il mio primo anno, quando a Suzuka il mio compagno di squadra è arrivato secondo. Anche a me è andata bene, quella gara: quel quarto posto è stato il mio miglior risultato, in quel primo anno. Era stato un risultato inaspettato e tutta la squadra era all’apice della felicità. Abbiamo festeggiato tantissimo quella sera. È sicuramente il mio ricordo migliore.
Allo stesso modo il mio momento peggiore risale sempre a quella stagione: all’ultima gara stagionale eravamo messi piuttosto bene e l’assetto era perfetto per la pioggia torrenziale che stava cadendo quel giorno al Fuji. Sono risalita dalle retrovie fino alla terza posizione. Sarebbe stato un risultato stupendo per me e per il team, tanto più che era la nostra ultima gara insieme. Non c’erano dissapori tra me e la squadra, nonostante ci stessimo per separare definitivamente: sapevano che valevo di più di quanto potessero offrirmi. Se avessi finito quella gara al terzo posto, quella sera avremmo festeggiato forse di più che qualche mese prima a Suzuka. Durante la gara sentivo che avrei raggiunto l’apice del successo. Era una sensazione sbagliata, dato che sono finita in aquaplaning.**

«Pioggia di merda!»
Grace si schiarì la voce, prima di osservare: «Quest’ultima affermazione preferirei non inserirla, se sei d’accordo.»
«Certo che no» confermò Dalia. «Per quanto sia l’affermazione migliore con cui concludere la risposta che ti ho appena dato, i lettori potrebbero non gradire.»

**GK - Dopo un anno di Silver League e quattro anni di Nippon Series, hai finalmente fatto il tuo debutto in Golden League con il Team Athena e ti sei ritrovata catapultata in un mondo completamente nuovo.
DH - In realtà non è stato un “mondo nuovo” tanto quanto potrebbe apparire dall’esterno. Il fatto che la Nippon Series sia un campionato giapponese non significa che sia completamente diversa dalle serie internazionali. Certo, l’influenza asiatica si vedeva e si vede ancora, ma ai miei tempi la serie si era già parecchio internazionalizzata.
La differenza principale, dal punto di vista mediatico, è stata la maggiore copertura degli eventi a livello mondiale. Al giorno d’oggi la Nippon Series può essere seguita più o meno ovunque nel mondo. Ai miei tempi non era proprio così.
Ad essere abbastanza nuovo, per me, era l’essere in un team di livello medio-basso. In Giappone lottavo per il campionato, mentre nella Golden League spesso l’obiettivo era riuscire a terminare la gara sperando di non incappare nell’ennesimo guasto.
Nel 200* è stata dura, mentre l’anno successivo le cose sono migliorate: meno problemi, qualifiche difficili, ma un buon passo gara. È stato quell’anno che ho ottenuto il mio primo podio: un terzo posto al Gran Premio del Canada.**

«Me lo ricordo perfettamente.» Grace scoppiò in una fragorosa risata. «Sul podio con te c’erano Arden e Barnett. Arden ti ha bloccata, mentre Barnett ti ha rovesciato lo champagne dentro la tuta. C’è stata una sorta di insurrezione popolare e qualche coglione ha scritto articoli sul fatto che quello fosse un abuso sessuale nei tuoi confronti.»
«Già» confermò Dalia. «Al gran premio successivo sono stata convocata alla conferenza stampa del mercoledì mattina. Mi è stato chiesto testualmente che cosa ne pensassi del loro deplorevole comportamento.»
«E tu hai risposto qualcosa che suonava come: “è da quando sono nata che non aspettavo altro che di essere sommersa di champagne sul podio di un gran premio della Golden League e ritengo che ciò che è stato scritto sui giornali di recente sia un’offesa nei confronti delle persone che hanno subito veri abusi sessuali”» ribatté Grace. «Anna Kravchenko in persona ha dichiarato dozzine di volte di stimarti profondamente, in quel weekend. Kathy Shelley, invece, ha fatto una delle sue sparate sul fatto che le donne pilota non verranno mai rispettate allo stesso modo degli uomini... il che magari è anche vero, ma in quel contesto non c’entrava proprio nulla.»
«Infatti. La stessa Kathy, quando saliva sul podio e veniva sommersa di champagne, non mi sembra che ne fosse particolarmente disturbata. Anzi...»
«A proposito, non te l’ho ancora chiesto» osservò Grace. «Che cosa ne pensi di Kathy Shelley?»
Dalia aggrottò la fronte.
«Lo scriverai nell’intervista?»
«Certo che no.»
Quella risposta le diede sollievo.
«Kathy Shelley prende troppo a cuore questioni che non hanno nulla a che vedere con il motorsport. È un bene, in realtà. Ci vogliono anche un po’ di seri attivisti sociali, al mondo, non trovi? Il problema è che vuole combattere le sue battaglie facendo la team principal in Golden League, in un contesto in cui la maggior parte dei problemi di cui le piace occuparsi non sono neanche minimamente paragonabili a quello che succede al di fuori del mondo dell’automobilismo. Per il resto non ho nulla contro il fatto che abbia deciso di ingaggiare quasi solo donne, nel suo team, e che su tre piloti abbia scelto tre donne. La cosa che mi fa un po’ sorridere è che l’anno scorso abbia cacciato fuori dal box suo padre, con la scusa che là gli uomini non possono entrare. Va bene combattere per la parità dei sessi, ma appunto, il concetto di parità dei sessi implica che non esista soltanto il sesso femminile. Il giorno in cui la Shelley se ne accorgerà, se mai dovesse accorgersene, ne resterà molto sorpresa.»
«Com’erano i rapporti tra te e lei, quando correvate nello stesso campionato?»
«Era il normale rapporto che c’è tra chi corre nello stesso campionato e ha una conoscenza almeno marginale dei suoi colleghi. Io e Kathy scambiavamo qualche parola, di tanto in tanto, se ci trovavamo nello stesso posto. So che non condivideva certi miei atteggiamenti, così come io non condividevo certi atteggiamenti suoi, ma non è mai stato un problema per nessuno: siamo persone adulte e civili.»

**GK - Dopo il Team Athena è stata la volta del salto di qualità: il team Rayo Fatal era una squadra di livello medio-alto e poteva permetterti finalmente di metterti maggiormente in mostra. Com’è stato il passaggio da una squadra all’altra?
DH - Mi è dispiaciuto lasciare il Team Athena, ma proprio come era successo quattro anni prima in Giappone, non potevo lasciarmi sfuggire la possibilità di salire di livello.
Il 200* non è iniziato nel migliore dei modi. La squadra non mi apprezzava e io non facevo molto per farmi apprezzare. Credo che quello sia stato l’anno in cui ho sfasciato più macchine di tutta la mia carriera.**

«Un po’ come Koji, per intenderci.»
«Sì, ma lui non ha mai smesso» ribatté Dalia, di fronte alla battuta di Grace. «In ogni caso mi sono data da fare. C’è stata una volta, dopo che avevo fatto danni, in cui il team manager mi ha convocata urgentemente. Mi ha urlato contro per venti minuti buoni, minacciandomi più volte di mettermi a piedi prima della fine della stagione. Mi raccomando, non scriverlo: questi sono gli scabrosi segreti del team Rayo Fatal.»
«Quando è accaduto esattamente?» volle sapere Grace.
«A Silverstone, quando sono partita ultima con la vettura di riserva dopo essere cappottata nelle qualifiche.»
«Quella volta sei arrivata seconda, in gara, se non sbaglio.»
«Esatto» confermò Dalia. «Volevo a tutti i costi dimostrare alla squadra che, per quanto mi considerassero una sfasciacarrozze patentata, si sbagliavano. Li ho stupiti. È il mio ricordo più bello di tutta la stagione.»
«Direi che posso scriverlo nel mio articolo.»
«Certo che sì.»

**DH - Il punto di svolta è arrivato a Silverstone. Non era una gara semplice: dopo un brutto incidente in qualifica partivo ultima. Sono stata molto aiutata dalle circostanze ma allo stesso tempo credo che quel Gran Premio di Gran Bretagna abbia avuto delle conseguenze positive da cui il mondo del motorsport, in particolare la parte femminile del motorsport, trae tuttora dei vantaggi.
C’è sempre stato un particolare grado di attenzione nei nostri confronti. Quella è stata la nostra rivincita. Il fatto che siano arrivate al traguardo soltanto undici vetture, di cui alcune doppiate di diversi giri, a causa di due diversi incidenti al via, ha sicuramente contribuito al risultato, ma ciò non lo rende meno storico. Probabilmente non accadrà mai più nella storia della Golden League di vedere tre donne sullo stesso podio. Per non parlare del fatto che quella è stata la prima vittoria di Anna Kravchenko, oltre che la prima vittoria di una donna nella Golden League. Io e la Shelley abbiamo solo completato l’opera.

GK - Qualcuno disse che il risultato della gara era falsato.
DH - In qualunque gara, qualunque sia il risultato, c’è sempre qualcuno che sostiene che si trattava di una gara falsata. Non ho ancora capito bene che significato diano al termine. Io, Anna e Kathy non abbiamo certo costretto i nostri colleghi a buttarsi fuori a vicenda per spianarci la strada. È stato un risultato imprevedibile, ma nulla di più.
Credo che tutte e tre abbiamo dimostrato ampiamente di meritarci i nostri risultati. Anna ha vinto un’altra gara, prima della fine della stagione, e qualche anno più tardi anche Kathy è riuscita a ottenere una vittoria.
Personalmente, tra il 200* e il 200*, anch’io ho dimostrato quanto valevo: in quella prima stagione ho chiuso al secondo posto il Gran Premio del Giappone, mentre l’anno seguente ho collezionato ben tre podi: terza al Gran Premio di Spagna, seconda al Gran Premio del Messico (uno dei momenti più belli della mia carriera) e infine ho ottenuto un ulteriore secondo posto.**

«A Interlagos, me lo ricordo perfettamente» osservò Grace. «Seppure nelle vene non ti scorra sangue brasiliano, i brasiliani ti hanno sempre considerata una di casa. Erano molto accalorati, quel giorno.»
«Il pubblico, al Gran Premio del Brasile, è sempre accalorato» borbottò Dalia, «Anche quando non dovrebbe esserlo.»
«Cerca di capirli. Finalmente in quel weekend stava succedendo qualcosa di positivo.»
Dalia scosse la testa con fermezza.
«Oh, no, in quel weekend non è successo proprio niente di positivo. Ti prego di non citarlo esplicitamente. Limitati a dire che ho ottenuto un ultimo secondo posto. Non merita spazio. È qualcosa che vorrei dimenticare.»
Grace annuì.
«Non c’è problema.»

**GK - Dopo quattro stagioni di Golden League, hai intrapreso un altro percorso: la nascente Emirates Series.
DH - Ho passato un ottimo inverno, lontana dalla Golden League, in una serie emergente che ha dimostrato fin dall’inizio molto potenziale. Purtroppo soltanto i veri intenditori l’hanno capito fin da subito. Sfortunatamente è durata soltanto da novembre fino a marzo, poi è tutto finito.
Anche la mia carriera ne ha risentito: per due anni solari non ho mai avuto un ingaggio stabile. Ho provato cose diverse, tra cui una fallimentare partecipazione alla 24 Ore di Le Mans (dalla quale ho appreso che le corse di durata non fanno per me) e qualche comparsa negli Stati Uniti, nelle poche gare sui circuiti cittadini.
Ho fatto anche qualche piccola comparsa in Golden League: ho partecipato al Gran Premio del Messico e al Gran Premio del Brasile in entrambi quegli anni, con la Scuderia Moretti. La macchina non era molto competitiva e i risultati non potevano essere eclatanti, però non è mai andata male.
Poi, l’anno dopo, all’età di ventinove anni, ci sono state due svolte nella mia vita: da una parte mi sono sposata, dall’altra è iniziata la mia carriera full-season in Indy Challenge.
In quell’anno ho anche disputato il Gran Premio del Messico, arrivando quarta, il miglior risultato stagionale della Scuderia Moretti. Volevano che restassi con loro per tutto il resto della stagione, ma ormai avevo preso un’altra strada.**

«Bella gara!» ribatté Grace. «Avevo scommesso con degli amici che avresti conquistato almeno un punto, in quel gran premio.»
«Beh, allora avrai vinto la scommessa.»
«Sì, però non ho mai riscosso la vincita.»
«Oh, mi dispiace.» Dalia rise. «Per caso i tuoi amici hanno dichiarato che la gara era falsata e si sono rifiutati di accettare il risultato?»
«Certo che no.»
«Bene. Mi sento sollevata.»

**GK - In Indy Challenge hai disputato sette stagioni complete, se consideriamo completa anche l’ultima, in cui hai saltato alcuni appuntamenti a causa dell’infortunio a Indianapolis. Nel frattempo hai gareggiato anche nella Emirates Series.
DH - Quando la Emirates Series è stata rispolverata ed è tornata in vita, non potevo certo tirarmi indietro.
All’epoca avevo già terminato tre stagioni complete in Indy Challenge, ottenendo risultati di un certo livello, tra cui alcune vittorie, ma ho capito che la mia vita poteva essere migliorata in qualche modo. Anche in questo momento ci sono state due svolte: la prima è che io e mio marito ci siamo lasciati definitivamente e la seconda è stata il mio ritorno nella Emirates Series. Ci sono rimasta per tre anni e, dopo un anno di stop, sono tornata.
In contemporanea ho completato altre quattro stagioni complete (includendo l’ultima) nella Indy Challenge e ho fallito il mio tentativo di vincere la Cinquecento Miglia di Indianapolis.**

«Devo scriverlo proprio con questi termini?» domandò Grace. «Quello che hai fatto quel giorno non è classificabile come “fallimento”, a mio parere.»
«Per te che sulla Cinquecento Miglia devi solo scrivere un articolo non è un fallimento» ribatté Dalia, «Mentre per me lo è stato eccome. Ero a un passo dalla vittoria. Mi sarebbe bastato mantenere la concentrazione per qualche istante ancora...»
«E forse le cose sarebbero andate molto male» le ricordò Grace. «Le ricostruzioni di quello che non è successo erano da brivido.»
«Mi fa piacere. A quanto pare sconvolgere gli appassionati di automobilismo è qualcosa di cui non si può fare a meno.»
«Non credo che siano rimasti tanto sconvolti» obiettò Grace. «In quello stesso weekend...»
Si interruppe.
Per fortuna non continuò.
Entrambe sapevano perfettamente che cosa fosse accaduto nel corso di quel weekend maledetto, prima ancora della Cinquecento Miglia.

**GK - Dopo un anno di stop sei rientrata nella Emirates Series. Perché hai preso questa decisione?
DH - A volte ho bisogno di nuove sfide. Altre volte, invece, non resta altro da fare che rispolverare quelle vecchie.
Io e il Team Vanilla siamo stati bene insieme, in passato. Sono successe anche cose negative, in epoca più recente, ma ci abbiamo messo una pietra sopra.
Questa stagione sta andando abbastanza bene ed è quello che conta. A Losail ho potuto addirittura lottare per la vittoria.**

«Però ha vinto Dobson.»
«Accidenti a lui» borbottò Dalia, tra i denti. «È sempre ovunque, quasi come il prezzemolo.»
«Non è difficile, per te, ritrovarti ad avere a che fare con lui» puntualizzò Grace. «Anzi, dovresti consideralo un segnale positivo. Più gli stai vicina e più i tuoi risultati sono buoni.»
Dalia sbuffò.
«È un modo come un altro per dire che dovrei vedere Karl Dobson come un esempio da seguire? Non sono d’accordo.»
«Tu e lui non siete mai andati molto d’accordo, ma non puoi negare il suo valore» obiettò Grace. «È uno dei piloti più competitivi della storia della Emirates Series.»
Dalia si morse un labbro.
“E in Golden League, invece, cos’ha fatto?” avrebbe voluto chiedere a Grace.
Gliel’avrebbe domandato, se non avesse avuto buone ragioni per temere la risposta.

**GK - Infine, le ultime tre domande, brevi e indolori. Cosa farai, una volta che la tua carriera di pilota sarà terminata?
DH - Non lo so.
I miei genitori hanno gestito un team, Mitchell lo gestisce al giorno d’oggi, anche Anders se la cava bene da questo punto di vista... Io, invece, non credo di esserci portata. Ho bisogno di avere la testa libera, ogni tanto, e chi sta in una posizione del genere non ha mai la testa libera.

GK - A che età pensi di ritirarti?
DH - Non lo so.
Dopo l’incidente di Indianapolis ho seriamente pensato di ritirarmi dalle competizioni. Allo stesso modo ho creduto che l’avrei fatto dopo la fine della stagione negli Stati Uniti.
È cambiato tutto quando ho ricevuto una proposta molto allettante da parte del Team Vanilla. Non parlo di soldi, ma piuttosto dell’opportunità di rimettermi in gioco. Sono tornata e sono soddisfatta di averlo fatto.
Non so dire quando mi ritirerò, anche perché non sarò certa che si tratti di un ritiro definitivo. Può darsi che in futuro decida di chiudere con le competizioni, ma che poi succeda qualcosa che mi porti a un ripensamento. Mai dire mai.

GK - Tornerai mai in Golden League?
DH - Non lo so.
Al momento non ce l’ho in programma.**

«Ti prometto che non mi lascerò scappare niente.» Attraverso lo schermo del computer, Grace le lanciò un’occhiata supplichevole. «Quando hai risposto alle prime due domande, almeno, eri sincera?»
«Ti ho dato risposte abbastanza articolate, mi pare» replicò Dalia. «Sinceramente non so né quando mi ritirerò né che cosa farò dopo. Chissà, magari incontrerò il principe azzurro e metterò al mondo un figlio.»
Grace rise.
Dalia aggrottò le sopracciglia.
«Perché, mi vedi bene come mamma?»
Grace scosse la testa.
«Ridevo solo perché i principi azzurri esistono soltanto nelle fiabe.»
«Me ne sono accorta» ribatté Dalia. «Vorrà dire che, prima o poi, saremo costrette ad accontentarci dei finti principi azzurri che vivono nel mondo reale. Oppure, nel tuo caso, più che di un principe azzurro, potrebbe trattarsi di un soggetto di altro tipo... per esempio un guidatore di autoscontri asiatico!»
«Non ci penso nemmeno! Tornando alle cose serie, invece, avete già deciso quando farete l’annuncio ufficiale?»
Dalia sospirò.
«Il più tardi possibile, a quanto pare. Alla vigilia della stagione, probabilmente.»
«E ai test?» obiettò Grace. «Come sarà spiegata la tua presenza?»
«Non sarà spiegata. Ai test privati indosserò il casco di Ethan. Quando non sarò al volante, cercherò di non farmi vedere.»

***

Dalia finì di allacciarsi la tuta, sotto lo sguardo attento di Claudia.
«Buona fortuna» disse quest’ultima, con la voce subdola di chi si auspica che tutto vada male.
Claudia sperava ancora di potere tornare negli Stati Uniti, al termine della stagione della Emirates Series.
Dalia accennò un sorriso.
«Grazie.»
Claudia se ne sarebbe fatta una ragione.
«Non c’è di che.»

***

Era una serata fresca, la prima che trascorsero a Jerez de la Frontera, luogo in cui avrebbero passato due settimane, una di test, una in preparazione dello “Spanish Double Grand Prix”, che si sarebbe svolto nel primo weekend di aprile.
Koji trovava ridicola la definizione, ma non spettava a lui né stabilire i nomi degli eventi, né tantomeno stilare il calendario, che gli appariva piuttosto degradante.
Quell’anno avrebbero visitato dieci circuiti e, in cinque degli stessi, si sarebbe tenuto un doppio evento. Era da ormai alcuni anni che quella pratica era ricorrente - d’altronde la Golden League era volta al risparmio e, purtroppo, il nuovo C.E.O., in carica da quattro anni, aveva meno capacità di contrattare, rispetto a quello precedente - ma non era mai capitato che ben cinque gran premi fossero costituiti da doppie qualifiche e doppia gara.
I tifosi, almeno, non sembravano particolarmente infastiditi. C’era chi si lamentava ancora dell’assenza di circuiti storici usciti di scena già da molto tempo e addirittura chi criticava il fatto che fossero usciti dal calendario anche alcuni circuiti moderni, a loro tempo ritenuti un “insulto al vero automobilismo”, qualunque fosse il senso di quel termine. C’era chi aveva qualcosa da ridire, e sempre ci sarebbe stato, ma la grande maggioranza degli appassionati si accontentava con poco aveva finito per tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui sia la Scuderia Moretti sia il Team Athena avevano garantito la loro presenza per la stagione 20**.
C’era stato il rischio che anche quelle due squadre, destinate ad essere i fanalini di coda del campionato, chiudessero i battenti. In tal caso, i team partecipanti al campionato che si apprestava a iniziare, sarebbero stati soltanto sei, con un totale di dodici piloti, ai quali si aggiungevano sei “riserve”, anche se definire riserve i terzi piloti era ormai anacronismo.
Anche con otto squadre, sedici monoposto al via sarebbero state troppo poche quindi le terze vetture non sarebbero scese in pista soltanto durante i test e durante le sessioni di prove libere, quell’anno, ma anche durante i gran premi.
Il sistema di prequalifiche e qualifiche appena approvato dalla Federazione prevedeva che gli otto terzi piloti prendessero parte a una sessione di un’ora, al giovedì pomeriggio, dalla quale i sei più veloci avrebbero conquistato la possibilità di qualificarsi per la gara (o, nel caso di doppio evento, per entrambe le gare).
L’ammissione alle qualifiche non comportava la matematica certezza di conquistarsi un posto sulla griglia di partenza: su ventidue piloti che vi avrebbero preso parte, soltanto venti avrebbero avuto quell’onore. Era facilmente prevedibile che i terzi piloti di team di un certo livello avrebbero potuto tranquillamente spodestare qualcuna delle Moretti o delle Athena di turno, rendendo ancora più difficili le cose per le squadre più in difficoltà.
Moretti e Athena rientravano a tutti gli effetti sotto quella definizione: in quel giorno a Jerez, in cui gli altri sei team avevano presentato le loro monoposto e, se ancora non l’avevano fatto, ufficializzato i loro piloti per la stagione 20**, le ultime due squadre non si erano fatte vedere. Avevano chiesto - e ottenuto - di potere saltare i test ufficiali di Jerez e di fare il proprio esordio direttamente la settimana successiva.
Di loro nessuno aveva parlato, quel giorno. Concordavano tutti che, davanti al resto del mondo, bisognava continuare a interpretare la parte di chi non ha problemi. La Scuderia Moretti e il Team Athena non c’erano... pazienza, prima o poi sarebbero arrivati e, se non fossero arrivati, qualcuno dall’alto avrebbe pagato sottobanco parte dei loro debiti per tenerli in vita.
Inoltre, siccome le altre serie avevano una facciata ben più appariscente, per completare l’opera era stata organizzata una festa, rigorosamente low-cost, in teoria per celebrare l’inizio della stagione, in pratica per far sì che, pubblicando sui social network fotografie o brevi videoclip dell’evento, ci fosse la possibilità di dare alla Golden League quell’aura glamour che da anni non riusciva più a mostrare.
L’evento consisteva in gran parte in un raduno nel paddock in cui team principal, piloti, ingegneri e meccanici che, indossando t-shirt o felpe con bene in vista gli sponsor delle proprie squadre, bevevano energy-drink dai colori improbabili, con un sottofondo musicale. Il deejay dell’evento era nientemeno che Gabriel Aruya, terzo pilota del team Rayo Fatal, che secondo le malelingue se la cavava meglio alla consolle piuttosto che al volante.
Per quanto riguardava Koji, era stato scelto dal team come reporter dell’evento. Gli avevano dato l’incarico scattare fotografie e di girare qualche video non particolarmente cretino, che sarebbe stato pubblicato sui profili ufficiali della squadra su tutti i social network possibili.
Gli avevano messo al seguito Grace, evidentemente giudicandolo incapace di capire da sé che cosa fosse “non particolarmente cretino”, quindi accettabile per fare bella figura davanti al mondo.
Koji si stupiva soltanto che non fosse stato indetto un concorso per far votare ai fan quale squadra avesse condiviso i filmati più belli, ma si guardava bene dall’esternare quel pensiero ad alta voce. Era certo che, se avesse osato fare una simile osservazione, qualcuno l’avrebbe preso in parola, dando vita a un’ulteriore pagliacciata.
«Allora?» gli domandò Grace, al suo fianco, proprio quando tutto lasciava pensare che Gabriel avesse innalzato il volume della musica. «Sei pronto per dare il meglio di te come fotografo? C’è molta gente che merita di essere immortalata.»
«Magari in un video.»
«Perché proprio in un video? Non è meglio fare qualche foto?»
«Non voglio fare la parte del giapponese stereotipato che scatta fotografie» ribatté Koji, iniziando a registrare un filmato. «Lì in un angolo, per i fatti suoi, c’è Erik Novak, campione in carica della Golden League, intento a tracannare una lattina di Sparks come se fosse vodka.» Koji chiamò il collega a gran voce. «Ehi, Novak!» Erik alzò lo sguardo, rovesciandosi inavvertitamente parte del contenuto della lattina sulla felpa di colore blu elettrico, colore storico del team Phoenix. «Come mai te ne stai lì da solo invece di stare attaccato alla gonna della tua addetta stampa?»
Erik gli strizzò un occhio.
«Perché Camilla oggi non ha la gonna.»
Non doveva essersi accorto che Koji lo stava immortalando, altrimenti non avrebbe mai pronunciato una simile affermazione: lui era Erik Novak, il trionfatore impassibile, quello che non si lasciava mai andare a una sola parola fuori luogo.
Non che apprezzare Camilla Winterport fosse fuori luogo, ma non era un comportamento tipico né di Novak, né di nessuno dei membri del team Phoenix: loro erano quelli perfetti, che emanavano un’aura di superiorità e, in quanto tali, erano intoccabili, perfino Shane Willis, che aveva ancora la reputazione da ultimo arrivato.
Nelle fotografie della presentazione della vettura della squadra austriaca, che erano girate sui social network, Willis aveva proprio quell’aria.
“Chissà a cosa stava pensando, in quel momento. Spero che almeno lui non stesse perdendo tempo a farsi delle fantasie sulla gonna di Camilla.”
A Koji sarebbe piaciuto chiederglielo, ma di Shane non si vedeva nemmeno l’ombra.

Una volta sollevato il velo che copriva la vettura, non c’era molto altro da fare: bastava mettersi in posa, accennare un lieve sorriso e farsi fotografare. Non era più come ai vecchi tempi, in cui le squadre organizzavano interminabili presentazioni presso le loro sedi ufficiali, con tanto di discorsi strappalacrime che duravano almeno mezz’ora.
Shane si riteneva fortunato di non essere arrivato nella massima serie in quelli che per lui erano tempi antichi. Parlare durante un evento ufficiale non gli piaceva.
“E non mi piace soprattutto adesso, che potrei sentirmi rivolgere domande imbarazzanti.”
I giornalisti ai quali aveva consentito di avvicinarsi un po’ troppo gliene avevano già poste, di recenti: “credi di meritare il team Phoenix, dopo i fatti di Sepang?” o “che effetto ti fa essere stato battuto da una donna?” erano quelle che andavano per la maggiore.
Erano domande alle quali Shane preferiva non rispondere.
Meritava di guidare la meravigliosa monoposto blu elettrico che lui e i suoi colleghi avevano appena mostrato al mondo? Certo che sì.
Meritava un ruolo come titolare, mentre Juan Suarez, il messicano proveniente dal team Sparks avrebbe dovuto accontentarsi di un ruolo di terzo pilota? Molto probabilmente sì. Suarez era sempre stato ottimo, ma non aveva mai mostrato di essere superiore alla media. Inoltre con il nuovo regolamento avrebbe potuto tranquillamente essere in grado di qualificarsi per tutti i gran premi. Forse, in quel modo, si sarebbe messo in mostra ancora più di quanto non potessero fare lui o lo stesso Novak.
Lo infastidiva il fatto che una donna avesse vinto il titolo, in Silver League, al termine della stagione precedente? Certo che sì, ma non perché Caroline Parker fosse una donna.
“Ero io a meritare quel titolo, non Caroline.”
Se solo Gabriel non avesse fatto il coglione, non sarebbero arrivati a quel punto. Shane, però, aveva perso le speranze: c’erano piloti come Gabriel che erano nati per fare i coglioni nel momento meno opportuno.
Anche quella era un’affermazione che, in un evento ufficiale, sarebbe stata del tutto inappropriata.
Shane era molto soddisfatto di non dovere fare altro che sorridere... ma non troppo, perché loro erano i principali candidati al titolo e non certo i buffoni del paddock.
Chissà, forse negli scatti ufficiali avrebbe avuto un’aria troppo pensierosa.
Andava bene?
Era un problema?
Magari non se ne sarebbe accorto nessuno: l’occhio non poteva fare altro che cadere sulla splendida vettura.
Non era solo bella, ma c’erano buone probabilità che fosse la più veloce del lotto. Bastava poco, a Shane, per dimenticare di essere stato, durante l’infanzia e l’adolescenza, un tifoso incallito del team Vega, acerrimo avversario della squadra di cui stava vestendo i colori.

«Oh, ecco che si avvicina Karl!» esclamò Koji, «Un altro che, come Erik, non sorride mai, almeno quando è in pubblico.»
«Spegni quell’aggeggio» lo pregò Erik Novak. «Non credo che a qualcuno interessi vedermi mentre mi sbrodolo la maglia come un bambino.»
«I bambini non bevono Sparks» replicò Koji. «Troppi zuccheri e troppa caffeina. Gli energy-drink non vanno bene per i bambini. Comunque è meglio che sia stato tu a sporcarti, piuttosto che qualcuno tipo Karl. Sul blu non si vede nulla, mentre invece quella maglietta candida ne avrebbe risentito parecchio.»
Grace alzò gli occhi al cielo.
«Koji, in nome dei motori Vega, smettila di dire cazzate.» Non poté, però, trattenere una risata. «Mi chiedo che cosa si sia fumato Mitchell quando ti ha proposto di fare qualche video della serata. Credevo che fumasse solo sostanze legali. In quantità industriale, è vero, ma pur sempre sostanze legali.» Si guardò intorno. «A proposito di video della serata, ci sarà davvero qualcosa di interessante da dover far vedere a tutti i costi? Non mi risulta che nella Emirates Series facciano queste pagliacciate.» Si rivolse al pilota neozelandese, recentemente vincitore del titolo. «Cosa ne dici, Dobson? Anche negli Emirati ci sono feste nel paddock?»
«No.»
«Gente seria» osservò Grace. «Loro pensano a guidare, mica a fare feste.»
«Sbagliato» ribatté Karl. «Di eventi ce ne sono parecchi... ma che bisogno c’è di farli proprio nel paddock? Negli Emirati non si organizzano feste per poveracci. Sono due mondi diversi. La Emirates è l’élite, la Golden League lo è stata molto tempo fa.»
«Allora» obiettò Koji, «Avresti potuto rimanere là.»
Per fortuna aveva spento la videocamera, notò Grace, che ormai aveva l’impressione che Karl stesse per pronunciare parole che era meglio non divulgare.
«Il campionato è finito» si limitò invece a puntualizzare Dobson. «Avevo varie opzioni e, tra le tante, ho scelto di unirmi al team Vega anche qui. Perché non avrei dovuto rientrare proprio adesso? La squadra è al top...»
Koji lo interruppe: «E ha già due piloti al top.»
Grace sospirò.
“Perché quel cretino non sta zitto?”
Era vero, Hugo Nyman e Manuel Gomez erano le prime scelte della squadra giapponese, e lo erano ormai da anni, ma non c’era bisogno di farlo presente proprio a Karl Dobson, che aveva la pessima abitudine di andarsene in giro con un’aria da dio in terra e che aveva più volte dimostrato di non apprezzare che si rimarcasse il suo status di “terzo pilota”.
Per fortuna quella sera Karl doveva sentirsi meno divino del solito, dal momento che si limitò a controbattere: «Non conta il passato, e anche quello che c’è scritto sul mio contratto conta fino a un certo punto. Non ho niente di meno di Hugo e Manuel e, se ho accettato di tornare, è perché credo di poterlo dimostrare. E poi sono in buona compagnia.»
Grace raggelò.
La *buona compagnia* doveva essere rappresentata da Dalia che, per fortuna, in quel momento era vicina alle casse e accennava qualche passo di ballo insieme al suo nuovo personal trailer, in presenza di due meccanici di mezza età. Ecco, quella sarebbe stata una scena perfetta da mostrare al mondo: né particolarmente folle né particolarmente imbarazzante.
Molte persone avrebbero finito per osservare che Jacques Dubois somigliava parecchio a Nathan, ma era un dettaglio su cui comunque, prima o poi, l’attenzione si sarebbe focalizzata.

Jacques si sedette di fronte a Dalia e la guardò con aria interrogativa.
«Allora?»
Lei finse di non capire.
«Allora... cosa?»
Jacques la fissò con fermezza.
«Perché hai voluto vedermi con urgenza, al punto da costringermi a cambiare i miei programmi per la giornata di oggi?»
Dalia sbuffò.
«Avevi qualcosa di così importante da fare?»
Jacques rise.
«Siete tutti così, nella Golden League?»
«Così... come?»
«Credete che il mondo giri solo ed esclusivamente intorno a voi. L’ho sempre detto: la popolarità dà alla testa.»
«Non posso farci niente se io, a differenza tua, ho continuato fino in fondo e sono diventata ciò che il destino aveva scelto per me.»
Jacques aggrottò le sopracciglia.
«Di cosa parli, se non sono indiscreto?»
«Non è un mistero che quindici anni fa tu fossi un promettentissimo kartista» ribatté Dalia. «Poi, da un giorno all’altro, hai deciso di ritirarti dalle competizioni per seguire i tuoi *veri interessi*. Perché l’hai fatto?»
«Mhm...» Jacques parve riflettere. «Credo che la ragione sia che i miei veri interessi siano diversi dai tuoi e che abbiano poco a che vedere con i motori. Ti sembrerà strano, ma...»
«Certo che mi sembra strano» lo interruppe Dalia. «Mi sembra difficile lasciare una brillante carriera per...»
A quel punto fu Jacques a non lasciarla finire.
«Ti chiedi come si possano preferire le scuole e le università ai circuiti? Anche Nathan me lo chiedeva sempre.»
«Sui circuiti ci sei tornato, anche se per vie traverse» replicò Dalia. «Quando hai accettato di diventare il suo preparatore atletico non hai pensato che avresti potuto rimpiangere ciò che tu stesso avresti potuto diventare?»
Jacques la guardò dritto negli occhi.
«Non ho nessun rimpianto.»
«Bene» concluse Dalia. «Scusa se ho perso un po’ troppo tempo con i convenevoli, ma ora vorrei passare al sodo. Sono qui per proporti di lavorare per me.»
Jacques spalancò gli occhi.
«Come hai detto?»
«Non fare finta di non avere capito» ribatté Dalia, «Perché so che hai capito benissimo quello che ti ho chiesto. Un nuovo campionato sta per iniziare e credo che tu sia l’uomo perfetto per me... non in senso equivoco, ovviamente.»
«Nessun equivoco» le assicurò Jacques. «Quello che non mi spiego è perché tu sia venuta qui a scovare proprio me.»
Dalia sospirò.
«Non lo so nemmeno io. Mi sono limitata a fare ciò che il cuore mi suggeriva. Sei libero di mandarmi via. Io, però, sarei più soddisfatta se ne parlassimo.»

«Aspettate un attimo, state fermi lì.» Gabriel scattò la fotografia, immortalando Dalia, Jacques e i due meccanici. «È venuta benissimo.»
Dalia si avvicinò.
«Posso vederla?»
«Un attimo.»
Gabriel la condivise in rete, prima di mostrarla alla collega.
«Sì, tutto sommato è venuta abbastanza bene» ammise Dalia. «Puoi postarla, se vuoi.»
Gabriel le strizzò amichevolmente un occhio.
«Già fatto.»
«Oh...» Dalia era spiazzata, o almeno si fingeva tale. «Non eri tu quello che si lamentava del fatto che i social network vengono ancora presi troppo sul serio? Pensavo che almeno tu avessi rinunciato a utilizzarli come mezzo di comunicazione.»
«Non li utilizzo come mezzo di comunicazione» replicò Gabriel. «Ho solo pubblicato una foto. Nel migliore dei casi riceverò dei commenti di gente infastidita dal fatto che tu sia travestita da arcobaleno, cosa che secondo il popolo della rete è concessa soltanto per andare a presenziare a un gay pride.»
«Vogliamo parlare di te travestito da limone, allora?»
Gabriel avvampò.
Effettivamente il team Corujas Blancas non era l’unico che, grazie a nuovi sponsor, aveva mutato radicalmente i propri colori, finendo per mettere in pista vetture di tonalità vistose, ma dotando i propri piloti e il proprio personale di indumenti quantomeno imbarazzanti.
«Te lo concedo» ammise, infine, «Sono travestito da limone. Non so se sia meglio o peggio che sembrare un canarino.»
«Sembri entrambe le cose» gli assicurò Dalia, con un sorriso a trentadue denti.
Se non altro era bello vederla sorridere: era accaduto poco spesso, durante i suoi mesi nella Emirates Series. Anche nelle due occasioni in cui era riuscita a salire sul podio era sempre sembrata tesa e insoddisfatta.
Era inutile dire che il suo ingaggio da parte del team Corujas Blancas era stato il tormentone di cui si era discusso maggiormente nelle ultime settimane.
Qualche voce era già uscita dopo i test privati del team, quando Dalia aveva provato la vettura camuffando la propria identità. Non si era mai fatta vedere al di fuori della monoposto e aveva sempre indossato un casco con i colori di quello di Ethan Harris.
Sarebbe bastato qualche scatto rubato quando era al di fuori dell’abitacolo e nessuna tuta e nessun casco avrebbero camuffato l’identità di Dalia, ma la squadra era stata molto attenta a far sì che macchine fotografiche e flash fossero ben lontani nei pochi momenti in cui era possibile intravedere le curve della Herrera. In conclusione, nessuno scatto rubato aveva permesso alla scuderia brasiliana di conservare più a lungo il proprio segreto... ma i segreti del mondo della Golden League erano fatti per essere svelati, nel momento più opportuno, ovvero quando era possibile catalizzare l’attenzione e mettersi in mostra.
Dalia aveva accettato il ruolo di terzo pilota, ma Gabriel era certo che sarebbe riuscita a mettersi in mostra comunque. Avrebbe superato senza difficoltà le prequalifiche - prequalifiche che Gabriel prevedeva di superare a propria volta - e avrebbe conquistato sempre la griglia di partenza: anche se dopo l’incidente a Indianapolis dell’anno precedente era sempre apparsa un po’ arrugginita, negli Emirati aveva dimostrato di non esserlo al cento per cento.
“Vederla sul podio sarà difficile” ipotizzava Gabriel, “Ma prenderà punti regolarmente.”
Nelle ultime stagioni le vetture Rayo Fatal e Corujas Blancas avevano avuto distacchi minimi, almeno quando le Corujas Blancas riuscivano ad arrivare in fondo, il che non accadeva molto spesso.
Le cose, comunque, dovevano essere cambiate, almeno considerando i proclami che la squadra sudamericana non aveva esitato a diffondere negli ultimi mesi. I motori Vega, così come il denaro sonante della Delirium, avrebbero contribuito a riportare il team al vertice, “dove doveva stare”.
Gabriel non era certo che bastassero un nuovo sponsor e un nuovo fornitore di motori per risolvere tutto, ma era convinto che, pur rimanendo uno scalino al di sotto di Phoenix e Vega, il team brasiliano sarebbe stato un valido concorrente per il terzo posto in classifica, posizione a cui anche gli spagnoli del Rayo Fatal, motorizzati Phoenix, aspiravano.
Se Ethan aveva lasciato il team Rayo Fatal per passare alla concorrenza, non era solo per questioni romantiche e per la sua dichiarata intenzione di terminare la propria carriera nella squadra in cui suo padre aveva creduto due decenni prima, ma anche perché contava su una monoposto competitiva almeno quanto quella che si era lasciato alle spalle.
Accanto a lui ci sarebbe stato Koji Yoshimoto, che era propenso all’errore ma veloce come un fulmine, ed entrambi avrebbero potuto contare sulla collaborazione di Dalia Herrera. Se fossero riusciti a gestire la pressione mediatica che si stava innalzando sempre di più, avrebbero potuto combinare qualcosa di positivo.
Seppure Gabriel non avesse alcun vantaggio da una ritrovata competitività del team Corujas Blancas, qualcosa in fondo al cuore lo spingeva ad augurarsi che potessero risollevarsi, prima o poi, e chissà, magari un giorno tornare a lottare per il campionato. Aveva solo vent’anni e non era vecchio abbastanza per ricordarsi di Kit Harris, ma quel pilota, capace di dimostrare che non è mai troppo tardi per iniziare a vincere, l’aveva sempre impressionato.
Harris aveva ottenuto la prima vittoria a trentasette anni, dopo più di un decennio trascorso a centro gruppo e nelle retrovie, al volante di vetture inferiori a ciò che avrebbe meritato, quando ormai tutti lo consideravano vicino al pensionamento e gli suggerivano di appendere il casco al chiodo e di seguire la carriera di suo figlio Ethan.
Al pensionamento c’era stato molto vicino, quando aveva rischiato di rimanere senza volante per la stagione successiva. Nessuno sembrava più credere in lui; nessuno a parte Ernesto Ramirez, suo vecchio rivale nelle retrovie nonché fondatore del team Corujas Blancas, la cui storia era molto recente, ma il cui progetto era molto serio.
Da bambino Gabriel aveva avuto due eroi: il primo era suo padre, pilota brillante ma dal budget limitato, che non aveva mai gareggiato al di fuori dei confini nazionali, l’altro era Kit Harris. Amava guardare le videocassette registrate da suo padre delle vecchie gare della Golden League e immaginare, un giorno, di diventare come Kit Harris.
Non era diventato come Kit Harris, ma aveva raggiunto, grazie al proprio impegno, alla propria determinazione, al proprio talento e ai propri sponsor, che non l’avrebbero mai preso in considerazione se non fosse stato per il suo impegno, la sua determinazione e il suo talento, quello che un tempo era il fiore all’occhiello dell’automobilismo internazionale. Poi, per una strana serie di coincidenze, la sua strada si era incrociata con quella di Daphne, la nipote di Kit, che in quella stagione avrebbe esordito in Silver League, dopo avere rifiutato il ruolo di terzo pilota per il team Pink Venus, perché voleva evitare di bruciare le tappe, ma il suo incontro con Daphne Harris aveva sfaccettature che si allontanavano molto dal mondo del motorsport.
Quello che era certo era che Daphne era rimasta molto impressionata, nel vederlo indossare per la prima volta la tuta giallo canarino alla presentazione della nuova vettura spagnola, dello stesso bizzarro colore giallo canarino.

«Prima ho visto Leroy e Villa e ho pensato che quelle tute fossero orrende» ammise Daphne, «E che Michel, soprattutto, stesse malissimo. Anche Ramon non era granché, ma già vedere Ramon in piedi, al di fuori della macchina, invece che nell’abitacolo di una macchina che spicca il volo, è già un passo avanti.» Daphne non era l’unica ad essere rimasta impressionata dal cappottamento del pilota messicano alla Cinquecento Miglia di Indianapolis; anzi, si era trattato di uno degli incidenti più discussi degli ultimi anni. «Poi, a quel punto, hai fatto la tua comparsa tu.»
Gabriel sorrise.
«E quindi?»
«Quindi ci ho ripensato» ribatté Daphne. «Quel giallo ti dona. In realtà dona a tutti. La vettura, tra l’altro, è bellissima.»
«Credevo che preferissi anche tu il verde brillante» replicò Gabriel. «Sul sito ufficiale della Golden League la Sparks è stata votata come la monoposto più bella del 20**.»
Daphne allargò le braccia.
«Cosa posso farci io se c’è così tanta gente che ha un pessimo gusto?»
«O magari» azzardò Gabriel, «Sono loro che hanno buon gusto e tu che non ce l’hai.»
«Mhm... effettivamente sì.» Daphne rise. «Mio padre dice sempre che devo avere un pessimo gusto, se mi piace uno sfasciacarrozze sconclusionato come te.»
«Buono a sapersi» ribatté Gabriel. «Mi sento molto più realizzato, adesso che so che il mio potenziale futuro suocero, nonché figlio del mio idolo d’infanzia, mi considera uno... come hai detto? sfasciacarrozze sconclusionato?»
«Sfasciacarrozze sconclusionato» confermò Daphne, «Ma in senso buono.»
«Mi è molto difficile credere che si possa definire qualcuno in questi termini in senso buono, ma lasciamo perdere. Ethan cambierà idea su di me, dopo che l’avrò asfaltato.»
«Mi raccomando, comportati bene con lui. Non vorrei che i gossip incrementassero.»
Gabriel le ricordò: «Non ci sono gossip su di noi. A meno che qualcuno non ci stia pedinando di nascosto o che non abbia messo dei microchip nei nostri cellulari, nessuno scoprirà che stiamo insieme.»
«A questo proposito, è meglio che vada prima che qualcuno mi scopra insieme a te» concluse Daphne. «Divertiti stasera, alla festa.»
«Tu ci sarai?»
Daphne scosse la testa.
«No, noi piloti della Silver League siamo giovani, ma seri. Ti ricordo che domani dobbiamo scendere in pista, noi.»
«Un po’ ti invidio, dato che io ho una stupida presentazione con il nostro main sponsor.
«Ah, già, quel buontempone che ha deciso di colorare tutto di giallo.» Daphne ridacchiò. «Ti capisco. Hai tutte le ragioni di questo mondo per invidiarmi.»

Dalia fece un cenno di saluto al “deejay” e si allontanò da Jacques giusto in tempo per vedere Koji che le veniva incontro.
Teneva in mano due bicchieri, riempiti di liquido verde.
Gliene porse uno.
«Posso offrirti un drink?»
«Se non l’hai avvelenato...»
«Non ho mai l’abitudine di avvelenare i miei compagni di squadra» la rassicurò Koji, «E non ho intenzione di iniziare con te.»
Dalia prese il bicchiere, lo portò alla bocca e bevve un sorso di Sparks aromatizzato alla menta. Era l’ultimo gusto che la multinazionale delle bibite energetiche, che deteneva anche la proprietà dell’omonimo team in Golden League e di altre squadre in altri campionati e in altre discipline sportive, aveva lanciato sul mercato.
«Che cosa ne pensi?» le chiese Koji. «Secondo me la migliore rimane sempre la prima che hanno messo in commercio.»
Dalia annuì, ma con poca convinzione, non perché le importasse qualcosa degli energy-drink dediti alle sponsorizzazioni di massa e non concordasse con il compagno di squadra, quanto perché in quel momento aveva altro per la testa.
«Per una volta, mi sento a posto con me stessa» confidò a Yoshimoto. «Sono felice che la stagione stia per iniziare.»
«Anch’io.»
«Non lo mettevo in dubbio.»
«Non hai capito» replicò Koji. «Volevo dire che sono felice che la nostra prima stagione nello stesso team stia per iniziare. Era da tanto tempo che desideravo l’occasione di confrontarmi di nuovo con te, anche se mi ero già messo il cuore in pace. Poi è arrivato Mister Delirium, ha deciso che dovevamo guidare monoposto con i colori dell’arcobaleno e che tu dovevi mettere il culo sul sedile. Ha fatto un’opera utile a tutti noi.»
«Delirium...» borbottò Dalia. «Questa stagione sarà un delirio.»
«Speriamo che sia il delirio dell’arcobaleno, allora» osservò, «Così le cose gireranno un po’ dalla nostra parte!»


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