Proprio mentre questi eventi sono nel vivo, accade qualcosa che sembra destinato a cambiare il destino di Dalia e allontanarla dalle competizioni. Nel frattempo, tuttavia, qualcosa si muove in un'altra direzione.
Buona lettura. *-*
Grace Kissinger era una ragazza frenetica e dannatamente attraente; ovviamente per quanto potesse essere attraente un’occidentale. Era chiaramente sovreccitata e c’era da sorprendersi che il tablet che teneva in mano non le fosse ancora caduto giungendo alla fine della propria esistenza funzionale.
“A proposito, che cosa se ne fa di quell’aggeggio? E soprattutto perché sta venendo verso di me con la sua aria da falco assassino?”
Koji avrebbe desiderato evitarla, ma si mise il cuore in pace: quando quella donna aveva intenzione di importunarlo con i suoi quesiti inopportuni, per lui non c’erano speranze.
L’andatura frenetica di Grace si fece esponenzialmente più calma al diminuire dei metri che li separavano.
«Bella giornata, vero?» gli domandò l’addetta stampa.
«Bellissima» confermò Koji, «Anche se, ovviamente, non lo sarà per me.»
«Guarda al lato positivo» ribatté Grace. «Almeno potrai vedere la gara da una prospettiva esterna e farti un’idea di come andranno le cose. Inoltre nessuno ti accuserà di avere fatto danni, il che è un bel passo avanti, non credi?» Gli strizzò un occhio. «Lo sappiamo entrambi, dopotutto, che con tutta probabilità avresti finito la gara sbattendo contro le barriere della Sainte Dévote.»
Koji alzò gli occhi al cielo, che a quell’ora era colorato di rosso da quello che gli speaker televisivi di mezzo mondo avrebbero potuto definire un “tramonto suggestivo”, se fossero stati più interessati a descrivere il paesaggio dell’imminente gran premio, invece che infierire, incuranti dei miglioramenti emersi durante le qualifiche, sui risultati del team Corujas Blancas o spettegolare sul potenziale e ipotetico arrivo nel team, l’anno seguente, del veterano Ethan Harris, che in molti preferivano vedere già confermato pilota di punta della scuderia Rayo Fatal per la quarta stagione consecutiva, il tutto mentre la terza aveva superato da poco l’inizio.
Alzò gli occhi al cielo e, abbandonate le riflessioni sulla suggestività del sole che tramontava sul Principato di Monaco, fece un sospiro. In certe occasioni - come in quella, per esempio - si chiedeva se Grace fosse sana di mente. Quando scherzava, sembrava sempre nascondere qualche fondamento di verità tra le sue battute. Quella volta si trattava della sua propensione all’incidente, che contribuiva a tramandare il mito del “pilota kamikaze”. Soltanto su una questione Koji non concordava e, dal momento che la riteneva piuttosto seria, ritenne opportuno puntualizzare: «Mi dispiace smentirti, ma ho una certa esperienza a proposito delle barriere di questo circuito, al punto che posso assicurarti che, se dovessi scegliere un tratto in cui andare a sbattere, non sarebbe affatto la Sainte Dévote.»
«I piloti non scelgono dove andare a sbattere» replicò Grace, «Almeno credo.»
«No, non siamo noi piloti a scegliere» confermò Koji, in tono solenne. «È il fato che sceglie chi deve andare a sbattere e dove. Noi siamo solo pedine senza libero arbitrio di una realtà già scritta da altri.»
«Okay, va bene, se lo dici tu...» tagliò corto l’addetta stampa. «Io non mi occupo né di scrivere la realtà altrui né di scegliere chi andrà a sbattere alla Sainte Dévote, ma soltanto di scrivere per la mia colonna su goldenleagueracing .net, sito che tu senz’altro non leggi.»
Koji le strizzò un occhio.
«Esatto. È di parte. Gli articoli sono scritti da fanboy targati Vega.»
«A me non sembra affatto di parte» replicò Grace. «Se pubblicano quello che scrivo io, non devono essere tanto di parte.»
Koji sbuffò.
«Ormai lo sanno tutti che quelli della Vega ci daranno i motori, il prossimo anno; lo sanno perfino le barriere della Sainte Dévote. Spero che non sia questo l’argomento che hai trattato stavolta. Sarebbe raccapricciante.»
«Lo sai che le questioni dei motori mi interessano relativamente. Mi interessa di più il lato umano delle competizioni e mi sono concentrata su questo. Il mio articolo pre-gara è solo una riflessione sui “gloriosi tempi che non torneranno più”.» Gli passò il tablet. «Vuoi leggerlo? Magari mi puoi dare anche qualche suggerimento.»
Koji non aveva affatto voglia di leggere materiale destinato ad essere pubblicato su un sito che spesso gli aveva dato addosso, ma per Grace poteva soprassedere e infrangere qualcuno dei suoi principi fondamentali.
Il pezzo scritto dall’addetta stampa, da un paio di mesi improvvisatasi opinionista, non era nemmeno così terribile. Certi passaggi della sua analisi erano interessanti e, chiunque fosse dotato di un minimo di intelletto, avrebbe potuto arrivare a quelle considerazioni. Il problema era che, proprio come buona parte degli addetti ai lavori, anche gli appassionati della serie evitavano di usare il cervello, a condizione che non fosse strettamente necessario.
Doveva essere quello il succo del monologo di Grace anche se, come il suo ruolo prevedeva, l’aveva messo nero su bianco in maniera piuttosto educata e senza far capire che riteneva che i suoi stessi lettori non fossero altro che una massa di imbecilli.
“[...] Non ho paura di andare controcorrente e ad esprimere un punto di vista che da molti potrebbe essere considerato impopolare.
La mia impressione è che la Golden League abbia tanti problemi, ma che “non essere più quella di un tempo” non sia neanche lontanamente quello principale.
Gli anni passano e tutto si evolve. È normale che, guardando all’indietro, ci capiti di vedere qualcosa di diverso da ciò che appare davanti a noi. Il vero problema latente della Golden League è non avere mai accettato il trascorrere del tempo.
I problemi non vengono mai da soli. Accanto alla Golden League in crisi, c’è la crisi di identità dei suoi sostenitori: appassionati di automobilismo che, con il proliferare delle serie di successo (un esempio è la Emirates Series, nata nel 200* e ad oggi popolarissima nonostante sia appena alla sua quinta stagione) e con l’accessibilità data da canali televisivi a tema e piattaforme streaming, si sono sentiti in dovere di fare una scelta.
La Golden League, proclamandosi continuamente come “unica” e “inimitabile”, ha sempre considerato traditori coloro che si appassionavano anche di altre serie, arrivando al punto di allontanarli. Gli appassionati stessi non hanno capito le dinamiche di questo fenomeno: sono tuttora convinti di avere smesso di seguire la Golden League perché non regala più le stesse emozioni che regalava alle vecchie generazioni.
Subentrano due controsensi. Il primo è che campionati come Nippon Series o Emirates Series somigliano molto di più alla Golden League di oggi, piuttosto che a quella di un tempo. Ciò nonostante, chi ha smesso di interessarsi alla Golden League limitando il proprio interesse a queste serie, oppure a serie ad esse comparabili, ha come prodotto di riferimento qualcosa che, al giorno d’oggi, non esiste più.
Il secondo controsenso è che talvolta anche persone che, per limiti di età, non hanno mai provato in prima linea certe emozioni, sostengono che la Golden League sia da condannare “perché non si vede più quello che si vedeva vent’anni fa”. Vent’anni fa, tra l’altro, il team Corujas Blancas sorprendeva il mondo ingaggiando Kit Harris, triste preludio a ciò che tutti, al giorno d’oggi, ricordano ancora come il più tragico finale di stagione di sempre. È questo che gli appassionati sostengono di volere rivivere? È questa l’idea romantica che hanno della Golden League?
Io non sono d’accordo con loro e non lo sarò qualunque cosa accada questo sabato sera, lungo le strade di Montecarlo, sotto le luci dei riflettori.
Poi domani sarà un altro giorno e può darsi che, dall’altra parte dell’oceano, accada qualcosa di più spettacolare. Ciò che accadrà nella 500 miglia di Indianapolis, però, non inciderà in alcuna maniera sull’esito del Gran Premio di Monaco, nonostante parte dell’attenzione possa essere già catalizzata su due importanti nomi della Golden League di pochi anni fa come Mitchell Ramirez e Dalia Herrera. [...]”
«Secondo me» osservò Koji, «Faresti meglio a eliminare le ultime due o tre righe.»
Grace aggrottò le sopracciglia.
«Quali?»
Koji le restituì il tablet.
«È meglio non menzionare Mitch e Dalia. Sono dei “traditori” che hanno oltraggiosamente preferito la Indy Challenge alla Golden League. È così che vengono descritti dai fanboy, no?»
Grace annuì.
«Sì, ma questo cosa c’entra?»
«Sito gestito da fanboy, sito frequentato dai fanboy» declamò Koji, allargando le braccia. «Mi dispiace, Grace, non possiamo farci niente. Non siamo noi a dettare le regole.»
«Me ne sbatto delle regole» ribatté l’addetta stampa. «Cosa credi? Guarda che qui, in giro per il paddock, tutti non stanno più nella pelle. Non vedono l’ora di vedere Dalia in azione, nonostante la sua posizione di partenza non sia proprio eccezionale. È così che funziona: qui tutti pensano a lei, ma non possono dirlo perché significherebbe dare troppa importanza a una gara in cui “non succede niente di interessante, ci sono solo trentatré macchine che girano in tondo”, mentre lei, negli Stati Uniti, se ne sbatte bellamente di quello che accadrà qui a Montecarlo.»
«Io non lo darei per scontato» obiettò Koji. «Chissà, farà uno strappo alla regola e starà a vedere quello che combineranno i miei colleghi. Poverina, sarà perfino costretta a sentire la mia mancanza. Se solo avessi saputo di che cosa l’avrei deprivata, mi sarei guardato bene dall’andarmi a sfracellare su un muro in Gara 2 a Jerez.»
Grace rimase in silenzio per qualche istante, poi gli domandò: «Te l’ho mai detto che secondo me non sei normale?»
«No, non me l’hai mai detto» rispose Koji, «Ma probabilmente l’hai sempre saputo. Deve essere per questo che io e te andiamo d’accordo. E ora smettiamola di chiacchierare. Il fatto che io non possa appoggiare il culo sul sedile per almeno altri dieci giorni non significa che non possa intromettermi nel lavoro di tutto il resto della squadra.»
Quello era un aspetto del team-work che Koji prendeva molto sul serio.
Rivolse un ultimo pensiero a Dalia e a Mitchell, chiedendosi che cosa stessero facendo in quel momento, poi andò a compiere il ruolo per cui nessuno lo apprezzava abbastanza.
-18h 20'
«Non so dire se il gran premio di Monaco di notte sia spettacolare» osservò Mitchell, «O se sia solo uno spettacolo trash.»
Dalia non aveva risposta.
Tutto ciò che riusciva a percepire in quel momento erano le luci gialle che lampeggiavano sullo start.
La livrea della vettura rimasta ferma sulla griglia di partenza, sulla casella della seconda posizione, parlava da sé.
«Oh, no!»
Mitchell se ne accorse dopo di lei.
«No, non ci credo! Non voglio credere che sia accaduto davvero. Dopo tutti i passi fatti finora...» Si prese la testa tra le mani, facendo un salto sulla sedia. «Non ci voleva. Era la prima volta, quest’anno, in cui c’era la possibilità di fare qualcosa di positivo. È tutta colpa di quell’incompetente che papà ha messo al posto di Koji. Spero che, dopo quello che è successo oggi, lo rispedisca in Francia a calci nel culo.»
«In Belgio, vorrai dire.»
«Francia, Belgio... è sempre lì, da qualche parte, in Europa.»
A Dalia sfuggì un sorriso. Mitchell era una frana, nella geografia europea.
«Sarebbe come se lui dicesse che io sono originaria dell’Ecuador. In ogni caso non possiamo dare tutta la colpa a Nath.»
«Ah, no? Chi è che ha lasciato spegnere la macchina come un pollo?»
La monoposto in questione finalmente si avviò.
«Oh, guarda, ce l’ha fatta.»
«Doveva farcela prima, non adesso» borbottò Mitchell, tra i denti. «Ormai non c’è più nulla da fare. Partire dall’ultima casella della griglia di partenza e partire dai box è la stessa cosa. Potrebbe anche andarsene a casa, già che c’è.»
«Adesso non esagerare» cercò di rassicurarlo Dalia. «Non è così terribile dover partire dall’ultima posizione.»
«È facile dirlo, per te» ribatté Mitchell, «Dato che noi sei al posto suo.»
«Non sarò al posto suo in questo momento, ma ti assicuro che so benissimo cosa significa dovere partire in ultima posizione.»
«Indianapolis e Montecarlo non hanno niente in comune.»
«Io nel 200* sono partita in penultima fila, a Montecarlo» gli ricordò Dalia, girandosi verso di lui, «E sono arrivata a un passo dal podio. Stanne certo, Nath ti sorprenderà, così come ha già sorpreso tutti qualificandosi secondo.»
«Se lo dici tu...» Mitchell non sembrava molto convinto. «Speriamo.»
-18h 17'
Una luce rossa.
Due luci rosse.
Tre luci rosse.
Quattro luci rosse.
Cinque luci rosse.
Stavano per spegnersi, sancendo il vero inizio del gran premio.
«Sarà una bella gara, me lo sento» commentò Dalia. «Mi fido della squadra. Mi fido di Kris e di Nath.»
Mitchell, ancora accanto a lei, sbuffò.
«Sei troppo ottimista.»
Le luci rosse si spensero.
Dalia era stata troppo ottimista.
Erano bastati pochi secondi perché si scatenasse il caos.
«Ma che casino è?!» protestò Mitchell. «Oggi non riescono proprio a fare una partenza normale, a quanto pare. Non sono...»
Le parole gli si spensero in bocca.
A Dalia non servì molto per comprendere il perché.
L’inquadratura televisiva era abbastanza esplicita.
«Ti prego, dimmi che è un incubo.»
Mitchell non replicò.
Dalia si mise una mano davanti agli occhi.
Iniziava ad avere la nausea.
-10h 35'
Era notte inoltrata e Dalia avrebbe dovuto dormire, invece che rigirarsi nel letto e allungare ogni pochi minuti la mano per prendere lo smartphone, entrare sul motore di ricerca e digitare quel nome.
Ogni volta le appariva lo stesso elenco degli stessi articoli, con titoli che andavano dal classico “Gravissimo incidente al Gran Premio di Montecarlo” ad assurdità del tipo “Incubo allo spegnimento delle luci rosse”.
Non c’erano novità e Dalia non se la sentiva di rileggere articoli che ormai conosceva a memoria e che le avrebbero fatto troppo male.
Ogni volta tornava ad appoggiare il cellulare.
Quella fu l’ultima, perché le sfuggì di mano.
Quando lo sentì sbattere sul pavimento, accese la luce.
Lo schermo era rotto.
Non solo: il telefono, l’unico contatto che aveva con ciò che stava accadendo - o piuttosto ciò che non stava accadendo - dall'altra parte dell’oceano, non dava più alcun segno di vita.
Dalia lo scagliò dall’altra parte della stanza.
Lo sentì fracassarsi, ma non le importava.
Quel dannato oggetto l’aveva tradita, lasciandola sola, quando aveva il disperato bisogno di non sentirsi sola.
-8h 47'
Dalia soffocò un urlo.
«Nath?» chiamò, alzandosi a sedere. «Nathan? Ci sei?»
Le volle qualche istante per realizzare quale fosse la realtà delle cose.
Nathan le aveva fatto una promessa.
«Non toglierò gli occhi dallo schermo» le aveva assicurato. «Non me ne importa niente se parti ultima, io sarò lì a tifare per te.»
Quella promessa non avrebbe potuto mantenerla.
Inoltre Dalia non riusciva a comprendere perché avesse appena chiamato il suo nome.
Forse l’aveva sognato?
Alla fine doveva essersi addormentata.
Avrebbe dovuto cercare di rimettersi a dormire.
“Prima, però, controllo se ci siano novità.”
Cercò il cellulare e ricordò che era rotto.
«Maledizione.»
Se solo non l’avesse scagliato via, con un po’ di pazienza, avrebbe potuto provare di rimetterlo in sesto.
Non aveva alternative.
Doveva chiudere gli occhi un’altra volta e sperare che presto fosse giorno.
-7h 21'
Nathan era di fronte a lei.
La fissava.
La fissava e Dalia ricambiava il suo sguardo.
«Perché?» gli chiese. «Perché sei venuto qui e adesso mi guardi senza dire niente?»
«Ti ho fatto una promessa» le ricordò Nathan. «Non posso più mantenerla, ma c’è qualcos’altro che posso fare per te.»
«Non credo» ammise Dalia. «Non c’è più niente che tu possa fare per me.»
«Fidati» la pregò Nathan. «Fidati, Dalia. Vinci quella dannata gara e farò per te tutto quello che vuoi.»
«C’è solo una cosa che voglio.»
«Lo so. Vinci quella gara e io riaprirò gli occhi.»
Dalia non ebbe il tempo di riflettere.
«Va bene.»
Quando tutto cambiò e si ritrovò semplicemente immersa nell’oscurità, quelle parole le parvero una condanna.
Se solo fosse stato giorno.
Se solo avesse potuto smetterla di cercare di dormire, precipitando all’interno di sogni assurdi.
Se solo avesse potuto essere il più possibile lontana da lì...
-6h 03'
Dopo il buio, si disse Dalia, viene sempre la luce.
A volte la luce viene per rimettere a posto le cose.
A volte la luce viene solo perché l’alba si è portata via la notte.
Dalia aveva un mal di testa atroce.
Aveva bisogno di informazioni che non aveva.
Poco male, presto le avrebbe avute.
-4h 45'
A volte uno smartphone vale l’altro, rifletté Dalia, non appena l’ebbe tra le mani.
Claudia, la sua personal trailer, era stata piuttosto comprensiva: dopo venti minuti di predica perché aveva le profonde occhiaie di chi ha trascorso la notte insonne, aveva capito che qualcosa la turbava.
«Oh» aveva esclamato, «Tu non sai ancora nulla.»
Dalia era raggelata.
«C’è qualcosa da sapere?»
Claudia aveva scosso la testa.
«Pare di no.»
Alcuni articoli nuovi, in realtà, c’erano.
C’erano e, ultimata la lettura, Dalia avrebbe preferito che non fossero mai esistiti.
Restituì il telefono alla trainer.
«Non riesco a crederci.»
«Sono tutti sconvolti, Dalia. Ora, però, non devi più pensarci.»
Certo, non doveva più pensarci.
Era facile.
Era facilissimo.
Era dannatamente semplice fingere che nulla fosse accaduto, se solo fosse stata un robot programmato per dimenticare.
Il solo problema era che Dalia non era un robot o che, se anche lo fosse stata davvero, non ne era al corrente.
Claudia parve non rendersi conto dell’immensa assurdità appena pronunciata, dal momento che proseguì: «Ti conosco e mi fido di te. Sei sempre riuscita a superare tutte le tragedie. Oggi darai il meglio di te, ne sono certa. Nei momenti più difficili hai sempre ottenuto grandi risultati.»
Non sapeva nemmeno di che cosa stesse parlando.
Nei “momenti difficili” aveva portato un po’ di serenità a squadre sull’orlo del fallimento garantendo la dovuta risonanza a sponsor che minacciavano di andarsene da un momento all’altro.
Anche se i milioni di yen, di euro e di dollari con cui aveva avuto a che fare erano stati determinanti per la carriera sua o di altri piloti, perdevano d’importanza: dall’altra parte dell’oceano il denaro non sarebbe servito per salvare una vita appesa a un filo.
Dalia si sforzò di mantenere la calma.
Era già distrutta, non poteva permettersi di peggiorare la situazione.
«Stai tranquilla, oggi andrà tutto bene.»
Si sarebbe messa in coda agli altri e sarebbe stata calma in attesa di un colpo di scena che potesse cambiare l’esito della gara.
Quel giorno non poteva fare altro.
Sullo schermo dello smartphone, Koji rilesse l’articolo di Grace sul sito di Golden League Racing, trovandolo quasi grottesco.
Dell’atmosfera incantata del giorno precedente, in cui la Golden League doveva dare il massimo per non sembrare scadente e inferiore a quella di un tempo, non era rimasto più niente.
L’accenno a Mitchell e a Dalia sembrava quasi innaturale. Erano dall’altra parte del mondo, lontani da un incubo che lì a Montecarlo, invece, tutti avevano vissuto.
Chissà fino a che punto la distanza fisica avrebbe potuto separarli da ciò che, irreparabilmente, li aveva ugualmente colpiti.
***
Il telefono stava squillando, ma Dalia non aveva alcun desiderio di rispondere. Il trauma cranico di qualche mese prima non l’aveva fatta rimbecillire completamente ed era perfettamente in grado di valutare che, se nell’Indiana a quell’ora erano le sei e un quarto del mattino, aveva tutti i diritti di ignorare il cellulare, anche se si trattava di Mitchell. Poteva richiamarla più tardi, anche se, a tutti gli effetti, per lui poteva significare telefonarle quando da lui era piena notte. Era in Europa, per quanto ne sapeva, e il fatto che Dalia arrivasse a dubitarne era la conferma di quanto negli ultimi tempi non si fosse occupata di altro che di se stessa.
Non se ne pentiva.
Erano trascorsi appena quattro giorni dalla fine definitiva a Fontana e aveva deciso di ritagliarsi almeno una settimana tutta per sé. Avrebbe deciso dopo che cosa fare; e nello specifico che cosa fare significava prendere una decisione a proposito dell’appartamento di Indianapolis in cui aveva vissuto negli ultimi anni.
Era inutile negarlo: la sua vita non era più negli Stati Uniti e, prima o poi, avrebbe dovuto andarsene altrove. C’erano troppi ricordi da quelle parti e, che fossero belli o brutti, a Dalia non piacevano perché i ricordi tendevano a farle brutti scherzi, come ad esempio quello di tirarla fuori dal letto alle cinque e quaranta del mattino per vedere lo speciale sul suo ritiro pubblicato la sera precedente sul sito ufficiale della Indy Challenge Series. Uno scherzo ancora peggiore avrebbe potuto essere quello di convincerla a rimanere sveglia per gran parte della notte per ammirare quell’interminabile video di oltre due ore - cosa c’era di così importante da dire, sulla fine della sua carriera? Dalia non riusciva a spiegarselo - ma per fortuna non era stata così pazza.
Che bisogno c’era di rinunciare al sonno per vedere ciò che, alle sei del mattino, si stava dimostrando null’altro che un resoconto dei fatti del maggio precedente e, nello specifico, dalla gara da cui erano passati ormai centonove giorni?
Dalia aveva visto e rivisto la gara in versione integrale. Si era costretta a quello strazio ogni volta in cui si sentiva di pessimo umore, per poi rendersi conto che, nel novanta per cento dei casi, il suo umore tendeva a peggiorare.
Non era stata una brutta giornata, la domenica del Memorial Weekend.
Non lo era stata, lasciando da parte il fatto che il cuore di Dalia pesasse come un macigno che avrebbe voluto essere ovunque, tranne che a Indianapolis.
Dalia era certa che, all’interno del filmato, quelle sensazioni sarebbero passate in secondo piano, anche a causa di una cronaca piatta.
Nessuno delle migliaia - migliaia? no, forse milioni - di spettatori avrebbe mai potuto comprendere fino in fondo che significato avesse avuto quel giorno per lei.
Nessuno avrebbe potuto immaginare fino a che punto, ad ogni minima conseguenza, le memorie di Indianapolis fossero tornate a tormentarla.
Nessuno avrebbe davvero capito, a parte lei.
Mentre la voce piatta dello speaker raccontava con poca spinta della sua partenza dall’ultima posizione, Dalia rivide sventolare la bandiera verde.
+0h 00' 05''
Non era più Dalia.
Era diventata una belva assetata di sangue.
Era una belva assetata di sangue a cui non importava nulla, se non le vetture che aveva già iniziato a lasciarsi alle spalle.
L’idea di avere ancora duecento giri da completare non la sfiorava minimamente.
Era irrilevante.
Tutto quello che contava era dare il meglio di sé.
L’aveva sempre fatto.
L’aveva sempre fatto e avrebbe continuato.
+1h 43' 55''
Come era arrivata fino alla top-five?
Non lo sapeva.
Non lo sapeva e non importava.
Non aveva fatto altro che il proprio dovere, cercando di infilarsi ovunque fosse possibile trovare un passaggio.
C’erano state un paio di neutralizzazioni e, in entrambi i casi, era riuscita a guadagnare terreno, senza mai porsi troppi problemi numerici.
Non se li poneva nemmeno lì, dalla quinta posizione.
Terminare la Cinquecento miglia di Indianapolis al quinto posto non avrebbe avuto alcun valore, per lei, dal punto di vista statistico.
Per fortuna la gara era ancora lunga.
Avrebbero potuto accadere ancora tanti imprevisti.
Dalia sperava ardentemente che accadessero ai suoi avversari, piuttosto che a lei.
+2h 54' 23"
Mentre la gara si avvicinava verso il suo termine naturale, i numeri iniziavano a diventare importanti.
Mantenere la lucidità non era sempre facile, quando l’obiettivo era continuare a spingere ma una voce via radio insisteva che era necessario cercare di risparmiare carburante.
Era seconda, in quel momento.
Era seconda e le serviva una fottutissima bandiera gialla; solo in quel modo sarebbe riuscita ad arrivare al traguardo.
+2h 59' 48''
Uno di quei debuttanti di cui Dalia ricordava a malapena il nome, le comunicarono dal box, aveva appena avuto la brillante idea di esibirsi in un testacoda multiplo all’uscita dalla pitlane.
La fortuna aveva continuato a girare dalla parte giusta.
Dalla trentatreesima alla seconda posizione in tre ore; posizione che forse sarebbe riuscita a conservare fino alla fine, nonostante quel dannatissimo carburante che ormai iniziava a scarseggiare.
Chissà, forse un giorno ancora molto lontano, dopo la fine della sua carriera, gli appassionati di automobilismo si sarebbero ricordati di lei.
Quanto valore avrebbe avuto quel giorno, tanti anni dopo?
Dalia giunse subito alla conclusione: dipendeva tutto da lei e da come avrebbe gestito il poco tempo che ancora rimaneva.
+3h 12' 54''
La bandiera verde era come un urlo che proveniva dalle viscere della terra e che la incitava a riprendere ciò che aveva interrotto quando quel rookie da quattro soldi - uno che magari avrebbe dominato tutto il decennio a venire, ma che in quel momento le appariva come un imbecille che aveva sbagliato mestiere - aveva avuto l’intuizione di andare a schiantarsi all’uscita dalla corsia dei box.
All’urlo metaforico se ne unì uno vero e umano, che proveniva dalla radio.
Dalia non capì nulla.
A lei stessa sfuggì un grido.
Il suo avversario, al restart, era stato meno reattivo di lei.
A quattro giri dal termine della Cinquecento miglia, dopo essere partita dall’ultima posizione, Dalia Herrera era al comando.
+3h 15' 27''
Mancava solo l’ultima curva.
Mancava l’ultima curva e poi sarebbe stata finita.
Poi Dalia vide un flash.
Fu questione di un attimo.
Fu un lampo di luce, che svanì quasi subito, ma che la abbagliò a lungo termine; sempre che si potesse definire lungo l’intervallo di tempo che intercorse dal momento in cui perse il controllo della vettura a quello dell’impatto.
Calarono le tenebre.
L’oscurità era pronta a divorarla.
Luce e buio si erano date appuntamento per possederla.
+3h 16' 03"
La luce che filtrava era fastidiosa.
Quei maledetti lampioni...
A proposito, lampioni?
Era giorno?
Era notte?
Una voce fastidiosa gracchiava qualcosa alla radio.
Dalia si sforzò di concentrarsi.
«Mi senti?»
Sentiva, ma non aveva l’impulso di rispondere.
Era giorno?
Era notte?
Finalmente riuscì a pronunciare qualche parola.
«Che... che ore sono?»
Luce e buio continuavano a mescolarsi.
Dalia aveva una gran confusione in testa.
Ricordava di essere andata a sbattere da qualche parte, anche se non sapeva in quale punto della pista.
Non avrebbe nemmeno saputo dire dove fosse: in quel momento Laguna Seca, Al Sahkir e Montecarlo erano la stessa cosa.
Montecarlo?
Quel nome le rimbalzò in mente, come se fosse stato legato a qualcosa di importante.
Ah, già, doveva esserci il gran premio, quel weekend.
O forse c’era già stato?
Dalia rievocò un’immagine sfuocata.
Caos.
Vetture incidentate.
Detriti.
Pneumatici in volo contro le auto che sopraggiungevano.
Il gran premio di Montecarlo c’era già stato, ricordò, sempre ammesso che quel ricordo non fosse frutto della sua fantasia.
Luce e buio, intanto, erano ancora confusi l’uno dentro l’altro.
Dalia invocò le tenebre di rapirla.
4h 50'
Voci vicine.
Voci lontane.
Voci sconosciute.
Dalia le trovava profondamente irritanti, quasi tanto quello schifoso odore di disinfettante che era costretta a sorbirsi da ore.
Perché negli ospedali doveva esserci sempre un tanfo così orripilante?
+5h 25'
«Dalia.»
Un’altra voce, stavolta conosciuta.
Cosa voleva Mitchell da lei?
Perché non la lasciava in pace?
«Ti prego» mormorò. «Voglio rimanere da sola.»
Almeno, furono quelle le parole che le parve di avere pronunciato.
Si sentiva confusa.
Si sentiva dannatamente confusa e la cosa non le piaceva.
Cercò di mettere a fuoco.
Lo vide.
«Come stai?» volle sapere lui.
«Quando mi permetteranno di andarmene starò bene» rispose Dalia. «Quanto tempo ancora devo trascorrere in questo orribile ospedale? Voglio andarmene.»
«Non puoi» disse Mitchell, calmo.
Certo che stava calmo, di lì a poco se ne sarebbe andato così come se niente fosse, mentre lei era costretta a stare sdraiata su quello scomodo letto.
«Se me ne andassi starei bene» insisté Dalia. «Non ha senso che me ne rimanga qui.»
«Ce l’ha eccome, invece. Ti ricordo che hai riportato un trauma cranico.»
Dalia si sentì in dovere di correggerlo: «Ho riportato un *lieve* trauma cranico. Non ho niente di grave.»
«A parte che, quando i soccorritori ti hanno tirata fuori da quel rottame, eri convinta di essere a Losail.»
Oh, già, Losail.
«Mi sono confusa, ma sto meglio di quanto tu creda.»
«Certo, tutte le persone perfettamente lucide confondono Indianapolis con Losail.»
«Adesso so dov’ero» replicò Dalia, «E ti assicuro che non sono affatto convinta di essere in Qatar. Voglio solo andare via da qui.»
«E magari gareggiare a Milwaukee sabato prossimo?»
«No.» Almeno una certezza Dalia ce l’aveva. «Io e i motori abbiamo chiuso.»
«Oh, perfetto!» esclamò Mitchell. «Proprio quando stavo iniziando a convincermi che nella tua testa ci fosse ancora qualche rotella che funzionava, mi vieni a dire che vuoi appendere il casco al chiodo. Non sei in te, Dalia. I medici hanno ragione: il posto in cui devi stare è questo.»
Dalia sospirò.
«Se lo dici tu.»
Mitchell le prese una mano.
«Lo dicono tutti. Non sbagliano.»
Già, forse avevano ragione.
Non si era sforzata nemmeno per un attimo di apparire più normale.
Non aveva nemmeno chiesto a Mitchell come fosse andata.
Quando Dalia aveva perso il controllo della monoposto ed era andata a sbattere, Mitchell doveva essere terzo o quarto.
«Com’è andata a finire la tua ultima gara?» gli chiese.
Si sentì fiera di se stessa.
Ricordava perfettamente che Mitchell aveva previsto di ritirarsi dalle competizioni dopo la sua ultima partecipazione alla Cinquecento miglia di Indianapolis.
Di lì a pochi mesi avrebbe ripreso a fumare come una ciminiera - non che non lo facesse già, senza dare nell’occhio - e bere birra aromatizzata. Magari sarebbe anche ingrassato e avrebbe iniziato a vestirsi come un disadattato sociale.
Oh... quei pensieri non erano così normali, forse.
Mitchell accennò un lieve sorriso.
«Davvero non lo sai?»
«No.» Dalia azzardò: «Mi hai rubato il secondo posto, vero?»
Mitchell spalancò gli occhi.
«Quale secondo posto?»
«Ah, sì, scusami...» Quello era un altro segnale preoccupante. «Io non ero seconda, però se tu eri terzo e io sono finita fuori... Insomma, è questione di fare due più due, o magari tre meno uno... o uno più due.»
«Ho vinto, Dalia» la informò Mitchell. «La gara, intendo, non la lotteria. Con tutti i numeri che stai tirando fuori, potresti anche confonderti.»
Dalia spalancò gli occhi.
Quell’azione le fece aumentare il senso di nausea.
A proposito, c’era correlazione tra lo spalancare gli occhi e la sensazione di nausea?
La luce le dava fastidio.
Era effetto della luce?
In ogni caso non era l’unica che si comportava in modo strano, nonostante tra lei e Mitchell non fosse lui quello che aveva battuto la testa.
«Capisco che il latte ti faccia venire acidità di stomaco, ma hai vinto la gara più importante al mondo, nell’ultimo tentativo che ti era rimasto, e lo dici con quell’aria da poeta depresso? Voglio dire, quell’aria da depresso e basta, perché sembri tutto tranne che un poeta.»
«Invece ti sbagli, perché se la mia carriera di pilota fosse andata a rotoli avrei avuto un futuro come poeta maledetto» replicò Mitchell, «Comunque non vedo che cosa ci sia da festeggiare, date le circostanze.»
«Va bene, non è il caso di festeggiare in grande stile, ma almeno un drink te lo potresti concedere» ribatté Dalia. «Se ti fai questi problemi per me, non ce n’è bisogno. Come vedi sono viva. Sono un po’ stordita, ma sono...»
Si interruppe.
Vide Mitchell abbassare lo sguardo.
«Oh, cazzo. Nessuno ti ha detto ancora niente, vero? Sono stato un idiota a pensare che già lo sapessi.»
Quell’affermazione la fece rabbrividire.
O forse era il freddo.
A proposito, c’era freddo in quella stanza o era una sua impressione?
Non aveva importanza.
Doveva essere colpa della botta in testa, se si perdeva in questioni così marginali.
C’era una sola domanda che doveva porre a Mitchell.
«Cos’è successo?»
Lo vide sedersi sul bordo del letto.
«Tu non sai niente di tutto quello che è successo dopo il tuo incidente, vero?»
«No.»
«Allora devo raccontarti una cosa.»
«È qualcosa di brutto?»
«No.»
«Però è successo anche qualcosa di brutto, non è vero?» volle sapere Dalia. «Sono successe due cose, una positiva e una negativa, e tu, per distogliere la mia attenzione da quella negativa, hai deciso di parlarmi di quella positiva. In tal caso, no grazie. Non lo voglio sapere. Non voglio sapere nulla. Lasciami da sola, per cortesia.»
«No, non ti lascio sola.» Mitchell non si spostò di un solo centimetro e, senza che Dalia potesse fare nulla per impedirglielo, iniziò a narrarle ciò che era capitato nelle fasi conclusive della gara all’Indianapolis Motor Speedway. «Mentre tu andavi a muro, là davanti c’è stato un incidente. Sono state coinvolte quattro vetture.»
«Chi?»
«Doppiati.»
«E da quando i doppiati non hanno un nome?»
«Mendoza, Shepard, Villa e Tanaka. Stanno tutti bene. Nonostante abbia spiccato il volo e abbia fatto una serie di cappottamenti multipli, Ramon era quello che stava meglio di tutti, dato che il suo pensiero più grande è stato quello di inveire contro Tanaka che, tra parentesi, nell’incidente è stato coinvolto da Mendoza. A parte questo, in pista c’è stato un gran macello. Se la gara non fosse finita, sarebbe stata esposta senz’altro bandiera rossa. Tornando a te, andando a muro hai avuto un culo stratosferico. È scritto su tutti i principali media che si occupano di automobilismo.»
«Con quei termini?»
«No.»
«Comunque non capisco cosa c’entro io.»
«Semplice: dalla ricostruzione su cui tutti concordano, se tu non fossi finita a muro, eri esattamente lungo la traiettoria seguita dalla monoposto volante di Ramon Villa. Invece di ritrovarti un pezzetto della tua ala anteriore contro al casco, avresti potuto essere decapitata dalla sua macchina. In rete girano già delle ricostruzioni abbastanza macabre.»
«Non sono sicura di volerle vedere.»
«Non è necessario. Tutto questo te l’ho raccontato solo per farti capire che, per quanto tu abbia perso la tua chance di vincere a Indianapolis, oggi hai sfidato la morte e hai vinto.»
Quelle parole le ricordarono che oltre a Indianapolis c’era anche tutto il resto del mondo.
«E Nathan?» domandò. «Come procede la sua sfida con la morte?»
Mitchell fece un sospiro.
«La morte ha irreparabilmente vinto per uno a zero intorno alle 21.30 in UTC+2.»
***
Un cellulare stava squillando.
Era quello di Mitchell.
«Troppo tardi» borbottò Anders. «Avrebbe potuto richiamarti prima. Johnstone ci teneva così tanto...»
«Johnstone non avrebbe parlato con lei, comunque» replicò Mitchell. «O almeno, non era nel suo stile.»
«Rispondile» lo supplicò Anders. «Rispondile e, qualunque cosa ti dica, richiama Johnstone e inventati qualcosa. Quell’uomo può salvarci. Senza la Delirium Company, potremmo rischiare di fare una brutta fine.»
Mitchell alzò gli occhi al cielo.
«Sei sempre il solito esagerato. Dovresti smetterla di occuparti delle questioni della squadra, dato che non sei tu che la gestisci.»
Anders rise.
«Grazie al cielo. Ricordati, comunque, che il tuo contatto con Johnstone sono io. Sono io che, quando era invitato ad Abu Dhabi in una tribuna vip, lo scorso aprile, l’ho ammaliato con le mie doti. Sono sempre io che, quando l’ho rivisto, gli ho fatto credere di essere il pilota meno dotato di tutta la famiglia.»
Come al solito Mitchell ci tenne a correggerlo: «Non gliel’hai *fatto credere*. È la verità. Deve saperlo anche lui, altrimenti avrebbe insistito per avere te come terzo pilota.»
Quella prospettiva era orripilante.
«Sai benissimo che non farei mai il terzo pilota.»
«Però Johnstone non lo sa.»
Il cellulare di Mitchell continuava a squillare.
Anders tornò a esortarlo: «Rispondi.»
Finalmente suo fratello parve sul punto di farlo, ma la suoneria si arrestò prima che potesse portare il telefono all’orecchio.
«Chi era?»
«Dalia.»
«Richiamala.»
«La richiamo subito, non preoccuparti. Tornando a Johnstone, non penso proprio che sappia qual è il ruolo di un terzo pilota. Credo che sia uno di quelli che pensano che l’automobilismo si possa sintetizzare in “venti auto che girano in tondo per due ore”. È irrispettoso. A Indianapolis ce ne sono trentatré e girano in tondo per almeno tre ore, tre ore e mezza. E poi, comunque, non dovresti disprezzare così tanto i terzi piloti.»
«Non li disprezzo» puntualizzò Anders. «Disprezzo quello che fanno. È meglio gareggiare in Bahrein o a Dubai, piuttosto che stare fermi a guardare a Jerez, a Silverstone o a Montreal.»
«I terzi piloti» gli ricordò Mitchell, «Avranno modo di scendere in pista molto presto. Aspetta che rimangano solo sette o otto team...»
«Ce ne sono ancora dieci.»
«Di cui tre sono sull’orlo del fallimento. Non voglio essere pessimista, ma credo immaginarsi una Golden League con almeno nove squadre, il prossimo anno, sia fantascienza.»
Buona lettura. *-*
Grace Kissinger era una ragazza frenetica e dannatamente attraente; ovviamente per quanto potesse essere attraente un’occidentale. Era chiaramente sovreccitata e c’era da sorprendersi che il tablet che teneva in mano non le fosse ancora caduto giungendo alla fine della propria esistenza funzionale.
“A proposito, che cosa se ne fa di quell’aggeggio? E soprattutto perché sta venendo verso di me con la sua aria da falco assassino?”
Koji avrebbe desiderato evitarla, ma si mise il cuore in pace: quando quella donna aveva intenzione di importunarlo con i suoi quesiti inopportuni, per lui non c’erano speranze.
L’andatura frenetica di Grace si fece esponenzialmente più calma al diminuire dei metri che li separavano.
«Bella giornata, vero?» gli domandò l’addetta stampa.
«Bellissima» confermò Koji, «Anche se, ovviamente, non lo sarà per me.»
«Guarda al lato positivo» ribatté Grace. «Almeno potrai vedere la gara da una prospettiva esterna e farti un’idea di come andranno le cose. Inoltre nessuno ti accuserà di avere fatto danni, il che è un bel passo avanti, non credi?» Gli strizzò un occhio. «Lo sappiamo entrambi, dopotutto, che con tutta probabilità avresti finito la gara sbattendo contro le barriere della Sainte Dévote.»
Koji alzò gli occhi al cielo, che a quell’ora era colorato di rosso da quello che gli speaker televisivi di mezzo mondo avrebbero potuto definire un “tramonto suggestivo”, se fossero stati più interessati a descrivere il paesaggio dell’imminente gran premio, invece che infierire, incuranti dei miglioramenti emersi durante le qualifiche, sui risultati del team Corujas Blancas o spettegolare sul potenziale e ipotetico arrivo nel team, l’anno seguente, del veterano Ethan Harris, che in molti preferivano vedere già confermato pilota di punta della scuderia Rayo Fatal per la quarta stagione consecutiva, il tutto mentre la terza aveva superato da poco l’inizio.
Alzò gli occhi al cielo e, abbandonate le riflessioni sulla suggestività del sole che tramontava sul Principato di Monaco, fece un sospiro. In certe occasioni - come in quella, per esempio - si chiedeva se Grace fosse sana di mente. Quando scherzava, sembrava sempre nascondere qualche fondamento di verità tra le sue battute. Quella volta si trattava della sua propensione all’incidente, che contribuiva a tramandare il mito del “pilota kamikaze”. Soltanto su una questione Koji non concordava e, dal momento che la riteneva piuttosto seria, ritenne opportuno puntualizzare: «Mi dispiace smentirti, ma ho una certa esperienza a proposito delle barriere di questo circuito, al punto che posso assicurarti che, se dovessi scegliere un tratto in cui andare a sbattere, non sarebbe affatto la Sainte Dévote.»
«I piloti non scelgono dove andare a sbattere» replicò Grace, «Almeno credo.»
«No, non siamo noi piloti a scegliere» confermò Koji, in tono solenne. «È il fato che sceglie chi deve andare a sbattere e dove. Noi siamo solo pedine senza libero arbitrio di una realtà già scritta da altri.»
«Okay, va bene, se lo dici tu...» tagliò corto l’addetta stampa. «Io non mi occupo né di scrivere la realtà altrui né di scegliere chi andrà a sbattere alla Sainte Dévote, ma soltanto di scrivere per la mia colonna su goldenleagueracing .net, sito che tu senz’altro non leggi.»
Koji le strizzò un occhio.
«Esatto. È di parte. Gli articoli sono scritti da fanboy targati Vega.»
«A me non sembra affatto di parte» replicò Grace. «Se pubblicano quello che scrivo io, non devono essere tanto di parte.»
Koji sbuffò.
«Ormai lo sanno tutti che quelli della Vega ci daranno i motori, il prossimo anno; lo sanno perfino le barriere della Sainte Dévote. Spero che non sia questo l’argomento che hai trattato stavolta. Sarebbe raccapricciante.»
«Lo sai che le questioni dei motori mi interessano relativamente. Mi interessa di più il lato umano delle competizioni e mi sono concentrata su questo. Il mio articolo pre-gara è solo una riflessione sui “gloriosi tempi che non torneranno più”.» Gli passò il tablet. «Vuoi leggerlo? Magari mi puoi dare anche qualche suggerimento.»
Koji non aveva affatto voglia di leggere materiale destinato ad essere pubblicato su un sito che spesso gli aveva dato addosso, ma per Grace poteva soprassedere e infrangere qualcuno dei suoi principi fondamentali.
Il pezzo scritto dall’addetta stampa, da un paio di mesi improvvisatasi opinionista, non era nemmeno così terribile. Certi passaggi della sua analisi erano interessanti e, chiunque fosse dotato di un minimo di intelletto, avrebbe potuto arrivare a quelle considerazioni. Il problema era che, proprio come buona parte degli addetti ai lavori, anche gli appassionati della serie evitavano di usare il cervello, a condizione che non fosse strettamente necessario.
Doveva essere quello il succo del monologo di Grace anche se, come il suo ruolo prevedeva, l’aveva messo nero su bianco in maniera piuttosto educata e senza far capire che riteneva che i suoi stessi lettori non fossero altro che una massa di imbecilli.
“[...] Non ho paura di andare controcorrente e ad esprimere un punto di vista che da molti potrebbe essere considerato impopolare.
La mia impressione è che la Golden League abbia tanti problemi, ma che “non essere più quella di un tempo” non sia neanche lontanamente quello principale.
Gli anni passano e tutto si evolve. È normale che, guardando all’indietro, ci capiti di vedere qualcosa di diverso da ciò che appare davanti a noi. Il vero problema latente della Golden League è non avere mai accettato il trascorrere del tempo.
I problemi non vengono mai da soli. Accanto alla Golden League in crisi, c’è la crisi di identità dei suoi sostenitori: appassionati di automobilismo che, con il proliferare delle serie di successo (un esempio è la Emirates Series, nata nel 200* e ad oggi popolarissima nonostante sia appena alla sua quinta stagione) e con l’accessibilità data da canali televisivi a tema e piattaforme streaming, si sono sentiti in dovere di fare una scelta.
La Golden League, proclamandosi continuamente come “unica” e “inimitabile”, ha sempre considerato traditori coloro che si appassionavano anche di altre serie, arrivando al punto di allontanarli. Gli appassionati stessi non hanno capito le dinamiche di questo fenomeno: sono tuttora convinti di avere smesso di seguire la Golden League perché non regala più le stesse emozioni che regalava alle vecchie generazioni.
Subentrano due controsensi. Il primo è che campionati come Nippon Series o Emirates Series somigliano molto di più alla Golden League di oggi, piuttosto che a quella di un tempo. Ciò nonostante, chi ha smesso di interessarsi alla Golden League limitando il proprio interesse a queste serie, oppure a serie ad esse comparabili, ha come prodotto di riferimento qualcosa che, al giorno d’oggi, non esiste più.
Il secondo controsenso è che talvolta anche persone che, per limiti di età, non hanno mai provato in prima linea certe emozioni, sostengono che la Golden League sia da condannare “perché non si vede più quello che si vedeva vent’anni fa”. Vent’anni fa, tra l’altro, il team Corujas Blancas sorprendeva il mondo ingaggiando Kit Harris, triste preludio a ciò che tutti, al giorno d’oggi, ricordano ancora come il più tragico finale di stagione di sempre. È questo che gli appassionati sostengono di volere rivivere? È questa l’idea romantica che hanno della Golden League?
Io non sono d’accordo con loro e non lo sarò qualunque cosa accada questo sabato sera, lungo le strade di Montecarlo, sotto le luci dei riflettori.
Poi domani sarà un altro giorno e può darsi che, dall’altra parte dell’oceano, accada qualcosa di più spettacolare. Ciò che accadrà nella 500 miglia di Indianapolis, però, non inciderà in alcuna maniera sull’esito del Gran Premio di Monaco, nonostante parte dell’attenzione possa essere già catalizzata su due importanti nomi della Golden League di pochi anni fa come Mitchell Ramirez e Dalia Herrera. [...]”
«Secondo me» osservò Koji, «Faresti meglio a eliminare le ultime due o tre righe.»
Grace aggrottò le sopracciglia.
«Quali?»
Koji le restituì il tablet.
«È meglio non menzionare Mitch e Dalia. Sono dei “traditori” che hanno oltraggiosamente preferito la Indy Challenge alla Golden League. È così che vengono descritti dai fanboy, no?»
Grace annuì.
«Sì, ma questo cosa c’entra?»
«Sito gestito da fanboy, sito frequentato dai fanboy» declamò Koji, allargando le braccia. «Mi dispiace, Grace, non possiamo farci niente. Non siamo noi a dettare le regole.»
«Me ne sbatto delle regole» ribatté l’addetta stampa. «Cosa credi? Guarda che qui, in giro per il paddock, tutti non stanno più nella pelle. Non vedono l’ora di vedere Dalia in azione, nonostante la sua posizione di partenza non sia proprio eccezionale. È così che funziona: qui tutti pensano a lei, ma non possono dirlo perché significherebbe dare troppa importanza a una gara in cui “non succede niente di interessante, ci sono solo trentatré macchine che girano in tondo”, mentre lei, negli Stati Uniti, se ne sbatte bellamente di quello che accadrà qui a Montecarlo.»
«Io non lo darei per scontato» obiettò Koji. «Chissà, farà uno strappo alla regola e starà a vedere quello che combineranno i miei colleghi. Poverina, sarà perfino costretta a sentire la mia mancanza. Se solo avessi saputo di che cosa l’avrei deprivata, mi sarei guardato bene dall’andarmi a sfracellare su un muro in Gara 2 a Jerez.»
Grace rimase in silenzio per qualche istante, poi gli domandò: «Te l’ho mai detto che secondo me non sei normale?»
«No, non me l’hai mai detto» rispose Koji, «Ma probabilmente l’hai sempre saputo. Deve essere per questo che io e te andiamo d’accordo. E ora smettiamola di chiacchierare. Il fatto che io non possa appoggiare il culo sul sedile per almeno altri dieci giorni non significa che non possa intromettermi nel lavoro di tutto il resto della squadra.»
Quello era un aspetto del team-work che Koji prendeva molto sul serio.
Rivolse un ultimo pensiero a Dalia e a Mitchell, chiedendosi che cosa stessero facendo in quel momento, poi andò a compiere il ruolo per cui nessuno lo apprezzava abbastanza.
-18h 20'
«Non so dire se il gran premio di Monaco di notte sia spettacolare» osservò Mitchell, «O se sia solo uno spettacolo trash.»
Dalia non aveva risposta.
Tutto ciò che riusciva a percepire in quel momento erano le luci gialle che lampeggiavano sullo start.
La livrea della vettura rimasta ferma sulla griglia di partenza, sulla casella della seconda posizione, parlava da sé.
«Oh, no!»
Mitchell se ne accorse dopo di lei.
«No, non ci credo! Non voglio credere che sia accaduto davvero. Dopo tutti i passi fatti finora...» Si prese la testa tra le mani, facendo un salto sulla sedia. «Non ci voleva. Era la prima volta, quest’anno, in cui c’era la possibilità di fare qualcosa di positivo. È tutta colpa di quell’incompetente che papà ha messo al posto di Koji. Spero che, dopo quello che è successo oggi, lo rispedisca in Francia a calci nel culo.»
«In Belgio, vorrai dire.»
«Francia, Belgio... è sempre lì, da qualche parte, in Europa.»
A Dalia sfuggì un sorriso. Mitchell era una frana, nella geografia europea.
«Sarebbe come se lui dicesse che io sono originaria dell’Ecuador. In ogni caso non possiamo dare tutta la colpa a Nath.»
«Ah, no? Chi è che ha lasciato spegnere la macchina come un pollo?»
La monoposto in questione finalmente si avviò.
«Oh, guarda, ce l’ha fatta.»
«Doveva farcela prima, non adesso» borbottò Mitchell, tra i denti. «Ormai non c’è più nulla da fare. Partire dall’ultima casella della griglia di partenza e partire dai box è la stessa cosa. Potrebbe anche andarsene a casa, già che c’è.»
«Adesso non esagerare» cercò di rassicurarlo Dalia. «Non è così terribile dover partire dall’ultima posizione.»
«È facile dirlo, per te» ribatté Mitchell, «Dato che noi sei al posto suo.»
«Non sarò al posto suo in questo momento, ma ti assicuro che so benissimo cosa significa dovere partire in ultima posizione.»
«Indianapolis e Montecarlo non hanno niente in comune.»
«Io nel 200* sono partita in penultima fila, a Montecarlo» gli ricordò Dalia, girandosi verso di lui, «E sono arrivata a un passo dal podio. Stanne certo, Nath ti sorprenderà, così come ha già sorpreso tutti qualificandosi secondo.»
«Se lo dici tu...» Mitchell non sembrava molto convinto. «Speriamo.»
-18h 17'
Una luce rossa.
Due luci rosse.
Tre luci rosse.
Quattro luci rosse.
Cinque luci rosse.
Stavano per spegnersi, sancendo il vero inizio del gran premio.
«Sarà una bella gara, me lo sento» commentò Dalia. «Mi fido della squadra. Mi fido di Kris e di Nath.»
Mitchell, ancora accanto a lei, sbuffò.
«Sei troppo ottimista.»
Le luci rosse si spensero.
Dalia era stata troppo ottimista.
Erano bastati pochi secondi perché si scatenasse il caos.
«Ma che casino è?!» protestò Mitchell. «Oggi non riescono proprio a fare una partenza normale, a quanto pare. Non sono...»
Le parole gli si spensero in bocca.
A Dalia non servì molto per comprendere il perché.
L’inquadratura televisiva era abbastanza esplicita.
«Ti prego, dimmi che è un incubo.»
Mitchell non replicò.
Dalia si mise una mano davanti agli occhi.
Iniziava ad avere la nausea.
-10h 35'
Era notte inoltrata e Dalia avrebbe dovuto dormire, invece che rigirarsi nel letto e allungare ogni pochi minuti la mano per prendere lo smartphone, entrare sul motore di ricerca e digitare quel nome.
Ogni volta le appariva lo stesso elenco degli stessi articoli, con titoli che andavano dal classico “Gravissimo incidente al Gran Premio di Montecarlo” ad assurdità del tipo “Incubo allo spegnimento delle luci rosse”.
Non c’erano novità e Dalia non se la sentiva di rileggere articoli che ormai conosceva a memoria e che le avrebbero fatto troppo male.
Ogni volta tornava ad appoggiare il cellulare.
Quella fu l’ultima, perché le sfuggì di mano.
Quando lo sentì sbattere sul pavimento, accese la luce.
Lo schermo era rotto.
Non solo: il telefono, l’unico contatto che aveva con ciò che stava accadendo - o piuttosto ciò che non stava accadendo - dall'altra parte dell’oceano, non dava più alcun segno di vita.
Dalia lo scagliò dall’altra parte della stanza.
Lo sentì fracassarsi, ma non le importava.
Quel dannato oggetto l’aveva tradita, lasciandola sola, quando aveva il disperato bisogno di non sentirsi sola.
-8h 47'
Dalia soffocò un urlo.
«Nath?» chiamò, alzandosi a sedere. «Nathan? Ci sei?»
Le volle qualche istante per realizzare quale fosse la realtà delle cose.
Nathan le aveva fatto una promessa.
«Non toglierò gli occhi dallo schermo» le aveva assicurato. «Non me ne importa niente se parti ultima, io sarò lì a tifare per te.»
Quella promessa non avrebbe potuto mantenerla.
Inoltre Dalia non riusciva a comprendere perché avesse appena chiamato il suo nome.
Forse l’aveva sognato?
Alla fine doveva essersi addormentata.
Avrebbe dovuto cercare di rimettersi a dormire.
“Prima, però, controllo se ci siano novità.”
Cercò il cellulare e ricordò che era rotto.
«Maledizione.»
Se solo non l’avesse scagliato via, con un po’ di pazienza, avrebbe potuto provare di rimetterlo in sesto.
Non aveva alternative.
Doveva chiudere gli occhi un’altra volta e sperare che presto fosse giorno.
-7h 21'
Nathan era di fronte a lei.
La fissava.
La fissava e Dalia ricambiava il suo sguardo.
«Perché?» gli chiese. «Perché sei venuto qui e adesso mi guardi senza dire niente?»
«Ti ho fatto una promessa» le ricordò Nathan. «Non posso più mantenerla, ma c’è qualcos’altro che posso fare per te.»
«Non credo» ammise Dalia. «Non c’è più niente che tu possa fare per me.»
«Fidati» la pregò Nathan. «Fidati, Dalia. Vinci quella dannata gara e farò per te tutto quello che vuoi.»
«C’è solo una cosa che voglio.»
«Lo so. Vinci quella gara e io riaprirò gli occhi.»
Dalia non ebbe il tempo di riflettere.
«Va bene.»
Quando tutto cambiò e si ritrovò semplicemente immersa nell’oscurità, quelle parole le parvero una condanna.
Se solo fosse stato giorno.
Se solo avesse potuto smetterla di cercare di dormire, precipitando all’interno di sogni assurdi.
Se solo avesse potuto essere il più possibile lontana da lì...
-6h 03'
Dopo il buio, si disse Dalia, viene sempre la luce.
A volte la luce viene per rimettere a posto le cose.
A volte la luce viene solo perché l’alba si è portata via la notte.
Dalia aveva un mal di testa atroce.
Aveva bisogno di informazioni che non aveva.
Poco male, presto le avrebbe avute.
-4h 45'
A volte uno smartphone vale l’altro, rifletté Dalia, non appena l’ebbe tra le mani.
Claudia, la sua personal trailer, era stata piuttosto comprensiva: dopo venti minuti di predica perché aveva le profonde occhiaie di chi ha trascorso la notte insonne, aveva capito che qualcosa la turbava.
«Oh» aveva esclamato, «Tu non sai ancora nulla.»
Dalia era raggelata.
«C’è qualcosa da sapere?»
Claudia aveva scosso la testa.
«Pare di no.»
Alcuni articoli nuovi, in realtà, c’erano.
C’erano e, ultimata la lettura, Dalia avrebbe preferito che non fossero mai esistiti.
Restituì il telefono alla trainer.
«Non riesco a crederci.»
«Sono tutti sconvolti, Dalia. Ora, però, non devi più pensarci.»
Certo, non doveva più pensarci.
Era facile.
Era facilissimo.
Era dannatamente semplice fingere che nulla fosse accaduto, se solo fosse stata un robot programmato per dimenticare.
Il solo problema era che Dalia non era un robot o che, se anche lo fosse stata davvero, non ne era al corrente.
Claudia parve non rendersi conto dell’immensa assurdità appena pronunciata, dal momento che proseguì: «Ti conosco e mi fido di te. Sei sempre riuscita a superare tutte le tragedie. Oggi darai il meglio di te, ne sono certa. Nei momenti più difficili hai sempre ottenuto grandi risultati.»
Non sapeva nemmeno di che cosa stesse parlando.
Nei “momenti difficili” aveva portato un po’ di serenità a squadre sull’orlo del fallimento garantendo la dovuta risonanza a sponsor che minacciavano di andarsene da un momento all’altro.
Anche se i milioni di yen, di euro e di dollari con cui aveva avuto a che fare erano stati determinanti per la carriera sua o di altri piloti, perdevano d’importanza: dall’altra parte dell’oceano il denaro non sarebbe servito per salvare una vita appesa a un filo.
Dalia si sforzò di mantenere la calma.
Era già distrutta, non poteva permettersi di peggiorare la situazione.
«Stai tranquilla, oggi andrà tutto bene.»
Si sarebbe messa in coda agli altri e sarebbe stata calma in attesa di un colpo di scena che potesse cambiare l’esito della gara.
Quel giorno non poteva fare altro.
Sullo schermo dello smartphone, Koji rilesse l’articolo di Grace sul sito di Golden League Racing, trovandolo quasi grottesco.
Dell’atmosfera incantata del giorno precedente, in cui la Golden League doveva dare il massimo per non sembrare scadente e inferiore a quella di un tempo, non era rimasto più niente.
L’accenno a Mitchell e a Dalia sembrava quasi innaturale. Erano dall’altra parte del mondo, lontani da un incubo che lì a Montecarlo, invece, tutti avevano vissuto.
Chissà fino a che punto la distanza fisica avrebbe potuto separarli da ciò che, irreparabilmente, li aveva ugualmente colpiti.
***
Il telefono stava squillando, ma Dalia non aveva alcun desiderio di rispondere. Il trauma cranico di qualche mese prima non l’aveva fatta rimbecillire completamente ed era perfettamente in grado di valutare che, se nell’Indiana a quell’ora erano le sei e un quarto del mattino, aveva tutti i diritti di ignorare il cellulare, anche se si trattava di Mitchell. Poteva richiamarla più tardi, anche se, a tutti gli effetti, per lui poteva significare telefonarle quando da lui era piena notte. Era in Europa, per quanto ne sapeva, e il fatto che Dalia arrivasse a dubitarne era la conferma di quanto negli ultimi tempi non si fosse occupata di altro che di se stessa.
Non se ne pentiva.
Erano trascorsi appena quattro giorni dalla fine definitiva a Fontana e aveva deciso di ritagliarsi almeno una settimana tutta per sé. Avrebbe deciso dopo che cosa fare; e nello specifico che cosa fare significava prendere una decisione a proposito dell’appartamento di Indianapolis in cui aveva vissuto negli ultimi anni.
Era inutile negarlo: la sua vita non era più negli Stati Uniti e, prima o poi, avrebbe dovuto andarsene altrove. C’erano troppi ricordi da quelle parti e, che fossero belli o brutti, a Dalia non piacevano perché i ricordi tendevano a farle brutti scherzi, come ad esempio quello di tirarla fuori dal letto alle cinque e quaranta del mattino per vedere lo speciale sul suo ritiro pubblicato la sera precedente sul sito ufficiale della Indy Challenge Series. Uno scherzo ancora peggiore avrebbe potuto essere quello di convincerla a rimanere sveglia per gran parte della notte per ammirare quell’interminabile video di oltre due ore - cosa c’era di così importante da dire, sulla fine della sua carriera? Dalia non riusciva a spiegarselo - ma per fortuna non era stata così pazza.
Che bisogno c’era di rinunciare al sonno per vedere ciò che, alle sei del mattino, si stava dimostrando null’altro che un resoconto dei fatti del maggio precedente e, nello specifico, dalla gara da cui erano passati ormai centonove giorni?
Dalia aveva visto e rivisto la gara in versione integrale. Si era costretta a quello strazio ogni volta in cui si sentiva di pessimo umore, per poi rendersi conto che, nel novanta per cento dei casi, il suo umore tendeva a peggiorare.
Non era stata una brutta giornata, la domenica del Memorial Weekend.
Non lo era stata, lasciando da parte il fatto che il cuore di Dalia pesasse come un macigno che avrebbe voluto essere ovunque, tranne che a Indianapolis.
Dalia era certa che, all’interno del filmato, quelle sensazioni sarebbero passate in secondo piano, anche a causa di una cronaca piatta.
Nessuno delle migliaia - migliaia? no, forse milioni - di spettatori avrebbe mai potuto comprendere fino in fondo che significato avesse avuto quel giorno per lei.
Nessuno avrebbe potuto immaginare fino a che punto, ad ogni minima conseguenza, le memorie di Indianapolis fossero tornate a tormentarla.
Nessuno avrebbe davvero capito, a parte lei.
Mentre la voce piatta dello speaker raccontava con poca spinta della sua partenza dall’ultima posizione, Dalia rivide sventolare la bandiera verde.
+0h 00' 05''
Non era più Dalia.
Era diventata una belva assetata di sangue.
Era una belva assetata di sangue a cui non importava nulla, se non le vetture che aveva già iniziato a lasciarsi alle spalle.
L’idea di avere ancora duecento giri da completare non la sfiorava minimamente.
Era irrilevante.
Tutto quello che contava era dare il meglio di sé.
L’aveva sempre fatto.
L’aveva sempre fatto e avrebbe continuato.
+1h 43' 55''
Come era arrivata fino alla top-five?
Non lo sapeva.
Non lo sapeva e non importava.
Non aveva fatto altro che il proprio dovere, cercando di infilarsi ovunque fosse possibile trovare un passaggio.
C’erano state un paio di neutralizzazioni e, in entrambi i casi, era riuscita a guadagnare terreno, senza mai porsi troppi problemi numerici.
Non se li poneva nemmeno lì, dalla quinta posizione.
Terminare la Cinquecento miglia di Indianapolis al quinto posto non avrebbe avuto alcun valore, per lei, dal punto di vista statistico.
Per fortuna la gara era ancora lunga.
Avrebbero potuto accadere ancora tanti imprevisti.
Dalia sperava ardentemente che accadessero ai suoi avversari, piuttosto che a lei.
+2h 54' 23"
Mentre la gara si avvicinava verso il suo termine naturale, i numeri iniziavano a diventare importanti.
Mantenere la lucidità non era sempre facile, quando l’obiettivo era continuare a spingere ma una voce via radio insisteva che era necessario cercare di risparmiare carburante.
Era seconda, in quel momento.
Era seconda e le serviva una fottutissima bandiera gialla; solo in quel modo sarebbe riuscita ad arrivare al traguardo.
+2h 59' 48''
Uno di quei debuttanti di cui Dalia ricordava a malapena il nome, le comunicarono dal box, aveva appena avuto la brillante idea di esibirsi in un testacoda multiplo all’uscita dalla pitlane.
La fortuna aveva continuato a girare dalla parte giusta.
Dalla trentatreesima alla seconda posizione in tre ore; posizione che forse sarebbe riuscita a conservare fino alla fine, nonostante quel dannatissimo carburante che ormai iniziava a scarseggiare.
Chissà, forse un giorno ancora molto lontano, dopo la fine della sua carriera, gli appassionati di automobilismo si sarebbero ricordati di lei.
Quanto valore avrebbe avuto quel giorno, tanti anni dopo?
Dalia giunse subito alla conclusione: dipendeva tutto da lei e da come avrebbe gestito il poco tempo che ancora rimaneva.
+3h 12' 54''
La bandiera verde era come un urlo che proveniva dalle viscere della terra e che la incitava a riprendere ciò che aveva interrotto quando quel rookie da quattro soldi - uno che magari avrebbe dominato tutto il decennio a venire, ma che in quel momento le appariva come un imbecille che aveva sbagliato mestiere - aveva avuto l’intuizione di andare a schiantarsi all’uscita dalla corsia dei box.
All’urlo metaforico se ne unì uno vero e umano, che proveniva dalla radio.
Dalia non capì nulla.
A lei stessa sfuggì un grido.
Il suo avversario, al restart, era stato meno reattivo di lei.
A quattro giri dal termine della Cinquecento miglia, dopo essere partita dall’ultima posizione, Dalia Herrera era al comando.
+3h 15' 27''
Mancava solo l’ultima curva.
Mancava l’ultima curva e poi sarebbe stata finita.
Poi Dalia vide un flash.
Fu questione di un attimo.
Fu un lampo di luce, che svanì quasi subito, ma che la abbagliò a lungo termine; sempre che si potesse definire lungo l’intervallo di tempo che intercorse dal momento in cui perse il controllo della vettura a quello dell’impatto.
Calarono le tenebre.
L’oscurità era pronta a divorarla.
Luce e buio si erano date appuntamento per possederla.
+3h 16' 03"
La luce che filtrava era fastidiosa.
Quei maledetti lampioni...
A proposito, lampioni?
Era giorno?
Era notte?
Una voce fastidiosa gracchiava qualcosa alla radio.
Dalia si sforzò di concentrarsi.
«Mi senti?»
Sentiva, ma non aveva l’impulso di rispondere.
Era giorno?
Era notte?
Finalmente riuscì a pronunciare qualche parola.
«Che... che ore sono?»
Luce e buio continuavano a mescolarsi.
Dalia aveva una gran confusione in testa.
Ricordava di essere andata a sbattere da qualche parte, anche se non sapeva in quale punto della pista.
Non avrebbe nemmeno saputo dire dove fosse: in quel momento Laguna Seca, Al Sahkir e Montecarlo erano la stessa cosa.
Montecarlo?
Quel nome le rimbalzò in mente, come se fosse stato legato a qualcosa di importante.
Ah, già, doveva esserci il gran premio, quel weekend.
O forse c’era già stato?
Dalia rievocò un’immagine sfuocata.
Caos.
Vetture incidentate.
Detriti.
Pneumatici in volo contro le auto che sopraggiungevano.
Il gran premio di Montecarlo c’era già stato, ricordò, sempre ammesso che quel ricordo non fosse frutto della sua fantasia.
Luce e buio, intanto, erano ancora confusi l’uno dentro l’altro.
Dalia invocò le tenebre di rapirla.
4h 50'
Voci vicine.
Voci lontane.
Voci sconosciute.
Dalia le trovava profondamente irritanti, quasi tanto quello schifoso odore di disinfettante che era costretta a sorbirsi da ore.
Perché negli ospedali doveva esserci sempre un tanfo così orripilante?
+5h 25'
«Dalia.»
Un’altra voce, stavolta conosciuta.
Cosa voleva Mitchell da lei?
Perché non la lasciava in pace?
«Ti prego» mormorò. «Voglio rimanere da sola.»
Almeno, furono quelle le parole che le parve di avere pronunciato.
Si sentiva confusa.
Si sentiva dannatamente confusa e la cosa non le piaceva.
Cercò di mettere a fuoco.
Lo vide.
«Come stai?» volle sapere lui.
«Quando mi permetteranno di andarmene starò bene» rispose Dalia. «Quanto tempo ancora devo trascorrere in questo orribile ospedale? Voglio andarmene.»
«Non puoi» disse Mitchell, calmo.
Certo che stava calmo, di lì a poco se ne sarebbe andato così come se niente fosse, mentre lei era costretta a stare sdraiata su quello scomodo letto.
«Se me ne andassi starei bene» insisté Dalia. «Non ha senso che me ne rimanga qui.»
«Ce l’ha eccome, invece. Ti ricordo che hai riportato un trauma cranico.»
Dalia si sentì in dovere di correggerlo: «Ho riportato un *lieve* trauma cranico. Non ho niente di grave.»
«A parte che, quando i soccorritori ti hanno tirata fuori da quel rottame, eri convinta di essere a Losail.»
Oh, già, Losail.
«Mi sono confusa, ma sto meglio di quanto tu creda.»
«Certo, tutte le persone perfettamente lucide confondono Indianapolis con Losail.»
«Adesso so dov’ero» replicò Dalia, «E ti assicuro che non sono affatto convinta di essere in Qatar. Voglio solo andare via da qui.»
«E magari gareggiare a Milwaukee sabato prossimo?»
«No.» Almeno una certezza Dalia ce l’aveva. «Io e i motori abbiamo chiuso.»
«Oh, perfetto!» esclamò Mitchell. «Proprio quando stavo iniziando a convincermi che nella tua testa ci fosse ancora qualche rotella che funzionava, mi vieni a dire che vuoi appendere il casco al chiodo. Non sei in te, Dalia. I medici hanno ragione: il posto in cui devi stare è questo.»
Dalia sospirò.
«Se lo dici tu.»
Mitchell le prese una mano.
«Lo dicono tutti. Non sbagliano.»
Già, forse avevano ragione.
Non si era sforzata nemmeno per un attimo di apparire più normale.
Non aveva nemmeno chiesto a Mitchell come fosse andata.
Quando Dalia aveva perso il controllo della monoposto ed era andata a sbattere, Mitchell doveva essere terzo o quarto.
«Com’è andata a finire la tua ultima gara?» gli chiese.
Si sentì fiera di se stessa.
Ricordava perfettamente che Mitchell aveva previsto di ritirarsi dalle competizioni dopo la sua ultima partecipazione alla Cinquecento miglia di Indianapolis.
Di lì a pochi mesi avrebbe ripreso a fumare come una ciminiera - non che non lo facesse già, senza dare nell’occhio - e bere birra aromatizzata. Magari sarebbe anche ingrassato e avrebbe iniziato a vestirsi come un disadattato sociale.
Oh... quei pensieri non erano così normali, forse.
Mitchell accennò un lieve sorriso.
«Davvero non lo sai?»
«No.» Dalia azzardò: «Mi hai rubato il secondo posto, vero?»
Mitchell spalancò gli occhi.
«Quale secondo posto?»
«Ah, sì, scusami...» Quello era un altro segnale preoccupante. «Io non ero seconda, però se tu eri terzo e io sono finita fuori... Insomma, è questione di fare due più due, o magari tre meno uno... o uno più due.»
«Ho vinto, Dalia» la informò Mitchell. «La gara, intendo, non la lotteria. Con tutti i numeri che stai tirando fuori, potresti anche confonderti.»
Dalia spalancò gli occhi.
Quell’azione le fece aumentare il senso di nausea.
A proposito, c’era correlazione tra lo spalancare gli occhi e la sensazione di nausea?
La luce le dava fastidio.
Era effetto della luce?
In ogni caso non era l’unica che si comportava in modo strano, nonostante tra lei e Mitchell non fosse lui quello che aveva battuto la testa.
«Capisco che il latte ti faccia venire acidità di stomaco, ma hai vinto la gara più importante al mondo, nell’ultimo tentativo che ti era rimasto, e lo dici con quell’aria da poeta depresso? Voglio dire, quell’aria da depresso e basta, perché sembri tutto tranne che un poeta.»
«Invece ti sbagli, perché se la mia carriera di pilota fosse andata a rotoli avrei avuto un futuro come poeta maledetto» replicò Mitchell, «Comunque non vedo che cosa ci sia da festeggiare, date le circostanze.»
«Va bene, non è il caso di festeggiare in grande stile, ma almeno un drink te lo potresti concedere» ribatté Dalia. «Se ti fai questi problemi per me, non ce n’è bisogno. Come vedi sono viva. Sono un po’ stordita, ma sono...»
Si interruppe.
Vide Mitchell abbassare lo sguardo.
«Oh, cazzo. Nessuno ti ha detto ancora niente, vero? Sono stato un idiota a pensare che già lo sapessi.»
Quell’affermazione la fece rabbrividire.
O forse era il freddo.
A proposito, c’era freddo in quella stanza o era una sua impressione?
Non aveva importanza.
Doveva essere colpa della botta in testa, se si perdeva in questioni così marginali.
C’era una sola domanda che doveva porre a Mitchell.
«Cos’è successo?»
Lo vide sedersi sul bordo del letto.
«Tu non sai niente di tutto quello che è successo dopo il tuo incidente, vero?»
«No.»
«Allora devo raccontarti una cosa.»
«È qualcosa di brutto?»
«No.»
«Però è successo anche qualcosa di brutto, non è vero?» volle sapere Dalia. «Sono successe due cose, una positiva e una negativa, e tu, per distogliere la mia attenzione da quella negativa, hai deciso di parlarmi di quella positiva. In tal caso, no grazie. Non lo voglio sapere. Non voglio sapere nulla. Lasciami da sola, per cortesia.»
«No, non ti lascio sola.» Mitchell non si spostò di un solo centimetro e, senza che Dalia potesse fare nulla per impedirglielo, iniziò a narrarle ciò che era capitato nelle fasi conclusive della gara all’Indianapolis Motor Speedway. «Mentre tu andavi a muro, là davanti c’è stato un incidente. Sono state coinvolte quattro vetture.»
«Chi?»
«Doppiati.»
«E da quando i doppiati non hanno un nome?»
«Mendoza, Shepard, Villa e Tanaka. Stanno tutti bene. Nonostante abbia spiccato il volo e abbia fatto una serie di cappottamenti multipli, Ramon era quello che stava meglio di tutti, dato che il suo pensiero più grande è stato quello di inveire contro Tanaka che, tra parentesi, nell’incidente è stato coinvolto da Mendoza. A parte questo, in pista c’è stato un gran macello. Se la gara non fosse finita, sarebbe stata esposta senz’altro bandiera rossa. Tornando a te, andando a muro hai avuto un culo stratosferico. È scritto su tutti i principali media che si occupano di automobilismo.»
«Con quei termini?»
«No.»
«Comunque non capisco cosa c’entro io.»
«Semplice: dalla ricostruzione su cui tutti concordano, se tu non fossi finita a muro, eri esattamente lungo la traiettoria seguita dalla monoposto volante di Ramon Villa. Invece di ritrovarti un pezzetto della tua ala anteriore contro al casco, avresti potuto essere decapitata dalla sua macchina. In rete girano già delle ricostruzioni abbastanza macabre.»
«Non sono sicura di volerle vedere.»
«Non è necessario. Tutto questo te l’ho raccontato solo per farti capire che, per quanto tu abbia perso la tua chance di vincere a Indianapolis, oggi hai sfidato la morte e hai vinto.»
Quelle parole le ricordarono che oltre a Indianapolis c’era anche tutto il resto del mondo.
«E Nathan?» domandò. «Come procede la sua sfida con la morte?»
Mitchell fece un sospiro.
«La morte ha irreparabilmente vinto per uno a zero intorno alle 21.30 in UTC+2.»
***
Un cellulare stava squillando.
Era quello di Mitchell.
«Troppo tardi» borbottò Anders. «Avrebbe potuto richiamarti prima. Johnstone ci teneva così tanto...»
«Johnstone non avrebbe parlato con lei, comunque» replicò Mitchell. «O almeno, non era nel suo stile.»
«Rispondile» lo supplicò Anders. «Rispondile e, qualunque cosa ti dica, richiama Johnstone e inventati qualcosa. Quell’uomo può salvarci. Senza la Delirium Company, potremmo rischiare di fare una brutta fine.»
Mitchell alzò gli occhi al cielo.
«Sei sempre il solito esagerato. Dovresti smetterla di occuparti delle questioni della squadra, dato che non sei tu che la gestisci.»
Anders rise.
«Grazie al cielo. Ricordati, comunque, che il tuo contatto con Johnstone sono io. Sono io che, quando era invitato ad Abu Dhabi in una tribuna vip, lo scorso aprile, l’ho ammaliato con le mie doti. Sono sempre io che, quando l’ho rivisto, gli ho fatto credere di essere il pilota meno dotato di tutta la famiglia.»
Come al solito Mitchell ci tenne a correggerlo: «Non gliel’hai *fatto credere*. È la verità. Deve saperlo anche lui, altrimenti avrebbe insistito per avere te come terzo pilota.»
Quella prospettiva era orripilante.
«Sai benissimo che non farei mai il terzo pilota.»
«Però Johnstone non lo sa.»
Il cellulare di Mitchell continuava a squillare.
Anders tornò a esortarlo: «Rispondi.»
Finalmente suo fratello parve sul punto di farlo, ma la suoneria si arrestò prima che potesse portare il telefono all’orecchio.
«Chi era?»
«Dalia.»
«Richiamala.»
«La richiamo subito, non preoccuparti. Tornando a Johnstone, non penso proprio che sappia qual è il ruolo di un terzo pilota. Credo che sia uno di quelli che pensano che l’automobilismo si possa sintetizzare in “venti auto che girano in tondo per due ore”. È irrispettoso. A Indianapolis ce ne sono trentatré e girano in tondo per almeno tre ore, tre ore e mezza. E poi, comunque, non dovresti disprezzare così tanto i terzi piloti.»
«Non li disprezzo» puntualizzò Anders. «Disprezzo quello che fanno. È meglio gareggiare in Bahrein o a Dubai, piuttosto che stare fermi a guardare a Jerez, a Silverstone o a Montreal.»
«I terzi piloti» gli ricordò Mitchell, «Avranno modo di scendere in pista molto presto. Aspetta che rimangano solo sette o otto team...»
«Ce ne sono ancora dieci.»
«Di cui tre sono sull’orlo del fallimento. Non voglio essere pessimista, ma credo immaginarsi una Golden League con almeno nove squadre, il prossimo anno, sia fantascienza.»
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Milly Sunshine