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venerdì 30 luglio 2021

Il Delirio dell'Arcobaleno: blog novel - Puntata n.2

Mister Delirium - seconda puntata, con Dalia alle prese con lo sponsor del team di famiglia, che la vorrebbe nel team stesso. Da parte sua, la Herrera sembra avere altri piani, dato che ha ripreso a gareggiare nella Emirates Series, dove si scontra con il suo avversario storico Karl Dobson, ma in Golden League sembrano attenderla con ansia... Buona lettura. *-*


La presenza di Brett Johnstone nel paddock era irritante. Le sue visite già abbastanza frequenti, dato che la Delirium Company sponsorizzava vari piloti della Silver League e della Iron League, si erano intensificate.
Era stato presente a Sepang fin dalla prima giornata di test, per poi partire per Baltimora per andare a occuparsi dei propri affari nei pochi giorni di stop, tornando alla vigilia del gran premio: dalle informazioni che Grace era riuscita a raccogliere, sembrava seriamente intenzionato a proporre la propria collaborazione al team Corujas Blancas - “collaborazione”, strano modo per definire un’ingente quantità di milioni di dollari che avrebbe garantito al team di sopravvivere senza troppi problemi - e non faceva altro che menzionare Dalia Maria Herrera Ramirez, della quale si era perfino sforzato di apprendere il nome completo. Non doveva essere stato facile per lui ricordarsi il suo nome, dato che le scarse conoscenze in termine di automobilismo gli permettevano a stento di distinguere un pilota da un attaccapanni. Era ovviamente una metafora pessima, ma era opera di Koji e in quanto tale meritava di essere ricordata per tutto il resto della storia dell’umanità.
Nonostante ciò, Koji sembrava in realtà apprezzare il magnate statunitense, essendo costui l’unica persona al mondo che, in sua presenza, aveva elogiato con una serie di giri di parole le performance dei piloti giapponesi.
«Questo» aveva concluso Yoshimoto, che aveva l’abitudine di scherzare spesso sulla pessima reputazione dei suoi connazionali, «La dice lunga a proposito delle sue conoscenze.»
Tornando a Dalia, Mitchell l’aveva tartassata di telefonate, negli ultimi tempi, e si era lamentato che da due settimane lei cercasse di evitarlo, con lo scopo evidente di sfuggire all’imprenditore di Baltimora.
Non doveva essere molto difficile portare a termine quell’intento con un discreto margine di successo, dato che la Herrera abitava dall’altra parte del mondo. Nelle prime ore del mattino del primo giorno di prove libere del gran premio della Malesia, però, c’era stato un colpo di scena, in quanto Dalia Herrera aveva finalmente fatto il proprio ingresso trionfale nel paddock di Sepang, attesa dal fratello, ma non da Brett Johnstone che, da come gironzolava avanti e indietro come senza uno scopo apparente, pareva ignorare del tutto la notizia del suo arrivo.
“Chissà se sarà in grado di riconoscerla.”
Grace ne dubitava.
Agli occhi del presidente della Delirium Company Ltd., Dalia doveva sembrare una donna come tutte le altre. Soltanto indossando tuta e casco, forse, non sarebbe passata inosservata, anche se c’era il serio e concreto pericolo che Johnstone la scambiasse per un Koji Yoshimoto qualsiasi, nonostante il taglio occidentale degli occhi e il fatto che la tuta si rigonfiasse in corrispondenza del seno.
“O magari crederà che Dalia sia un attaccapanni.”
Purtroppo Koji sembrava essersi dimenticato della metafora declamata da lui stesso. Quando come al solito si distrasse quei pochi minuti utili per scambiare con Grace le poche parole di rito, poco prima di prepararsi per scendere in pista, parlò ovviamente della Herrera, ma non lo fece in tono poetico.
Si limitò a chiedere: «Sai per caso perché Dalia è qui a Sepang?»
Grace puntualizzò: «Era già risaputo che sarebbe venuta.»
«Pensavo che arrivasse sabato per qualifiche, o quantomeno non prima di domani» replicò Koji, «Non mi aspettavo certo di trovarla qui già stamattina.»
Grace lo guardò negli occhi.
«È qui per Johnstone.»
«Oh, interessante» ribatté Koji. «Per caso Mister Delirium vuole ingaggiarla come testimonial per la sua nuova linea di detersivi per pavimenti?»
«Ne dubito fortemente. Dalia non mi sembra la persona più adatta per pubblicizzare un prodotto del genere.»
«Tu dici? In effetti non ce la vedo nemmeno io a lavare i pavimenti. Peccato, però, perché sarebbe stato bello uno spot trasmesso in mondovisione in cui Dalia scende dalla vettura e si mette a pulire la pit-lane con ancora la tuta indosso.»
«La pit-lane è asfaltata, non è di marmo. Non è un po’ difficile pulirla con il detersivo per pavimenti?»
«Forse sì, ma una pubblicità non deve fermarsi davanti a difficoltà di questo livello. Sono facilmente arginabili.»
Grace azzardò: «Per caso, mentre gareggiavi nella Nippon Series, hai trovato il tempo per prendere una laurea in marketing?»
«Certo che no. Non che non apprezzassi la cultura, ma considerando tutte le botte in testa che ho preso in carriera non sono sicuro che sarei riuscito a concentrarmi sullo studio.»
«Allora vai a cambiarti e a fare il tuo lavoro, invece di volere fare quello degli altri. Non credo che saresti portato.»
«No, non sarei portato» ammise Koji, evidentemente a malincuore. «Va beh, approfondiremo la questione più tardi.»
Grace lo guardò aggrottando le sopracciglia.
«Quale questione?»
«Quella del detersivo per pavimenti.»
Grace sbuffò.
«Sai dove puoi mettertelo, quel maledetto detersivo?»
Koji ridacchiò.
«Non sono sicuro di volerlo sapere.»
Finalmente le voltò le spalle e si allontanò, al che Grace fece un sospiro di sollievo.
La sensazione di pace, purtroppo, non durò molto a lungo: stavolta non c’erano più piloti che si avvicinavano per le loro rituali chiacchiere pre-prove libere, dato che Mister Delirium in persona si stava avvicinando.
Doveva avere più o meno cinquant’anni e, dallo stile casual ma curato, sembrava più un uomo di medio rango che un imprenditore multimilionario. Non era facile inquadrarlo e, al di là dell’aiuto fornito dalla risaputa certezza che non capisse un fico secco di automobilismo, Grace aveva serie difficoltà a comprendere quale fosse l’approccio migliore, nei suoi confronti.
Johnstone sorrideva, in quel momento, e l’addetta stampa non sapeva se fosse un bene e un male. La ragione del sorriso del magnate era l’avere non del tutto casualmente posato gli occhi sulla sua scollatura. In passato Grace l’avrebbe considerato il male assoluto, ma con il passare del tempo si era resa conto che gli uomini che fissavano scollature nei momenti in cui avrebbero dovuto occuparsi di questioni serie non erano pericolosi.
Pericolosi no, ma irritanti sì: Grace rimpiangeva già la presenza di Koji Yoshimoto, nel momento in cui Mister Delirium le fece un cenno di saluto.
Ormai era a pochi passi di distanza, quindi Grace non indugiò ulteriormente e borbottò un “buongiorno” piuttosto sforzato..
«Buongiorno a lei» fu la replica di Johnstone. «È una bella giornata oggi, non le pare?»
«Sì, è una bella giornata» confermò Grace, «Anche se non le garantisco che lo rimanga molto a lungo. Per oggi pomeriggio sono previsti temporali.»
«Il pomeriggio è ancora lontano.»
«Già» convenne Grace, con un sospiro.
Perché la gente doveva perdere tempo a fare osservazioni così ovvie? Era un aspetto che le appariva quasi tollerabile, ma solo da parte di chi non era abituato a vivere al millesimo di secondo... e in effetti Mister Delirium non corrispondeva a quella descrizione.
«Ci voleva una bella giornata per fare risaltare il bell’aspetto di una donna come lei» fu la successiva inutile osservazione di Johnstone. «Ora, però, spero che mi potrà scusare se lascio da parte i convenevoli...»
“Sì, certo” si disse Grace. “In realtà è proprio quello che desidero.”
Il magnate dei prodotti per la casa e per la persona si guardò intorno, come ad accertarsi di non avere nessuno intorno.
«Mi è giunta voce che la signora Herrera Ramirez sarà qui presente oggi.»
Grace annuì.
«Ha sentito bene.»
Non era certa che Johnstone dovesse già esserne informato, ma non doveva essere così terribile metterlo a conoscenza di quel dettaglio. Anzi, considerando la sua sbadataggine, forse gli avrebbe evitato di fare l’ennesima figuraccia e di farsi ridere dietro dall’intero team, i cui membri fino a quel momento si erano sempre trattenuti perché aveva tanti soldi e, se fosse divenuto il main sponsor della squadra, come pareva interessato a fare, avrebbe significato la loro incontrovertibile fortuna e la possibilità di combinare qualcosa di buono negli anni a venire.
Il volto di Johnstone parve illuminarsi al pari dei pavimenti lavati con l’ultima linea di detersivo Delirium antibatterico immessa sul mercato.
«È proprio un piacere. Veda di trovarmi un posto in cui io e Dalia potremmo parlare tranquillamente e di pregarla a raggiungermi appena può.»
Grace spalancò gli occhi.
“Per caso mi ha confusa con la sua segretaria?”
Non disse niente.
Ascoltò altre due o tre frasi senza né capo né coda, dopodiché assicurò al signor Johnstone che ogni suo desiderio sarebbe stato eseguito nel minore tempo possibile.
A quel punto lo lasciò solo e si mise alla disperata ricerca di Mitchell. Era lui il capo, era lui che aveva deciso di mettersi in casa Mister Delirium, quindi era a lui che doveva spettare la responsabilità di fornirgli ciò che desiderava.

Brett Johnstone attendeva in una stanzetta piccola, seduto a un tavolino. Parlava al cellulare, quando la donna che aveva fatto sognare Indianapolis fece la propria apparizione.
Era tempo di chiudere la telefonata.
«Ci sentiamo in un altro momento. Ho un affare importante di cui occuparmi.»
«Anche il nostro è un affare importante» protestò il suo fidato collaboratore, dall’altro capo del telefono. «Non...»
Johnstone lo interruppe: «Sono in riunione con la signora Herrera Ramirez.»
«Oh, capisco.»
Evidentemente il cognome “Herrera” era la parola magica necessaria a far capire che la Delirium Company era vicina a un punto di non ritorno.
Il termine “riunione” avrebbe potuto sembrare inappropriato alla figlia adottiva di Ernesto Ramirez, ma la Herrera non lo dava a vedere. Dopotutto era sudamericana, forse non coglieva tutte le sfumature della lingua inglese.
“Tra l’altro, secondo i britannici, non le cogliamo nemmeno noi americani.”
Quel pensiero lo fece sorridere, ma Dalia Herrera Ramirez, che non era al corrente dei suoi deliri mentali pseudo-linguistici, probabilmente pensava che sorridesse a lei.
“Tanto meglio.”
Johnstone la esaminò con attenzione.
Era molto bella e sembrava giovane per essere una donna più vicina ai quarant’anni che ai trenta. Proprio come se la ricordava, aveva la pelle olivastra e lunghi capelli castani. Indossava una canottiera scollata, jeans attillati e scarpe eleganti. Johnstone non se lo aspettava: non che pensasse di vedersela comparire davanti con la tuta di Koji Yoshimoto indosso, ma non avrebbe creduto che, vista dal vivo, avesse così poco l’aria da pilota.
“Sarebbe perfetta in uno spot pubblicitario. Magari, quando la squadra della sua famiglia mi avrà venduto l’anima, potrei mettere il suo volto sulle bottiglie del detersivo o, perché no, addirittura sui pacchetti dei Delirium Extra Dry. Da vedere non sembra una che pulisce, ma sono certo che, come tutte le donne, i Delirium Extra Dry li abbia provati anche lei.”
Si costrinse a non fantasticare troppo su quell’eventualità e soprattutto a non chiederle se fossero più di suo gradimento gli assorbenti esterni o i tamponi.
Continuò a sorridere, nonostante non considerasse più importante il fatto che i britannici non condividessero le graziose sfaccettature dell’American English, sforzandosi di assumere l’aria di chi non ha la più pallida idea di che cosa siano le corse automobilistiche, dal momento che si era accorto di essere così popolare nell’ambiente proprio perché dava quell’impressione, e le fece un cenno.
«Si sieda.»
Dalia scostò la sedia e si accomodò di fronte a lui.
«Finalmente ci vediamo. È inutile che mi presenti, immagino.»
Johnstone annuì.
«Allo stesso tempo, anch’io ne posso fare a meno.»
«Già, lei è Mister Delirium, colui che potrebbe dare una grossa mano alla squadra. È un vero piacere che sia stato colpito dalla nostra storia vincente.»
«Era impossibile non rimanerne colpito» replicò Johnstone, «E sono certo che il team tornerà presto al vertice.»
Dalia allargò le braccia.
«È più facile a dirsi che a farsi.»
«Il fatto che lo si dica, però, significa che è una possibilità concreta, anche se non immediata.»
Dalia ridacchiò.
«Da come lo dice, sembra quasi che abbia almeno una vaga idea di che cosa sta parlando. Non era lei che, qualche mese fa, osservava che la Cinquecento Miglia di Indianapolis è una gara del tutto priva di valore, se si esclude quello prettamente storico, perché il vero automobilismo è quello in cui ci sono curve a destra e curve a sinistra?»
«Davvero ho detto questo?»
«Sì.»
«Ah, già» confermò Johnstone, che se ne ricordava perfettamente. Desideroso di mantenere immutata la propria reputazione, insisté: «Immagino che lei voglia smentirmi, vero? Dopotutto è proprio ciò che dovrei aspettarmi da chi non sa curvare a destra.»
Invece di insultarlo, Dalia gli strizzò un occhio.
Johnstone ne era certo, non era solo per la sua posizione: quella donna avrebbe reagito allo stesso modo anche di fronte a uno squattrinato autore della stessa affermazione.
«Lo sa che ho vinto due titoli, nella Nippon Series? E non solo, se quell’imbecille con cui mi giocavo il campionato non mi avesse speronata all’ultimo giro dell’ultimo gran premio stagionale, ne avrei vinto anche un terzo!»
Nonostante il forte desiderio di domandarle come mai non avesse lasciato il Giappone dopo la vittoria del primo titolo, come facevano tutti, almeno all’epoca in cui lei aveva gareggiato da quelle parti, quando il campionato giapponese era ancora ritenuto molti scalini al di sotto della Golden League, Johnstone si trattenne. Era una domanda troppo acculturata. Doveva continuare ad atteggiarsi a ignorante in materia.
«Ho sentito vagamente parlare delle sue prodezze. A proposito, com’è la Nippon Series?»
«Di solito i piloti curvano anche a destra, ogni tanto. Non è obbligatorio, ma quando la strada segue quel percorso è il modo migliore per non finire sull’erba o contro un muro. Se questo non le basta per convincersi che io sia in grado di girare a destra, le ricordo che bisogna farlo anche nella Emirates Series, dove ho sfiorato il titolo nel 200*.»
Per la prima volta da quando la Herrera era entrata nella stanza, Johnstone sentì che qualcosa gli sfuggiva, e non per finzione.
«200*?»
«Sì, 200*.»
«La Emirates Series esisteva già, nel 200*?»
«Ufficialmente quello è l’“anno del flop”. Tanti proclami, poca pubblicità, poca rilevanza a livello internazionale. A fine anno hanno chiuso la baracca. Poi, dopo qualche anno di riflessione, sono tornati, più forti di prima, con tutto quello che serviva: pubblicità virale, grande presenza sui social media, dirette streaming gratuite in tutto il mondo... e anche una buona dose di esibizionismo, non lo si può negare. Ero già passata alla Indy Challenge da diversi anni, all’epoca, ciò nonostante tutti i team si scannavano per avermi. Come saprà, il campionato si svolge tra ottobre e marzo e per gran parte non si sovrappone con quello americano, quindi avevo la concreta chance di ritornare. Sono stata per tre stagioni al team Vanilla.»
«E poi?»
«Poi ho litigato con i titolari e mi hanno messa a piedi. A quel punto ho deciso di concentrarmi soltanto sulla Indy Challenge, con l’obiettivo di coronare il mio sogno.»
«Ovvero?»
«Vincere a Indianapolis.»
«Ma non ha vinto.»
«Già, non ho vinto» convenne Dalia, «Ma mi sento comunque a posto con me stessa: in carriera ho vinto due titoli in Giappone, ho sfiorato il titolo negli Emirati, vincendo un gran premio...»
Johnstone la interruppe: «Solo uno?»
«Sì, ma ho collezionato molti podi, quell’anno» puntualizzò Dalia. «Di fatto ho mancato il podio soltanto una volta. Niente male, vero?»
«Dipende dai punti di vista» ribatté Johnstone. «Da quelle parti non danno lo champagne.»
«Dopo un po’ ci si abitua. Tornando a noi: due titoli in Giappone, il gran premio di Dubai del 200* e, a completare l’opera, quando ho capito che curvare a destra non serviva, ho ottenuto sei vittorie negli Stati Uniti.»
«Però, nella serie che conta, non è mai salita sul gradino più alto del podio» mise in chiaro Johnstone. «È davvero sicura che la sua sete di vittorie si sia placata?»
Dalia aggrottò la fronte.
«La Golden League, dice?»
Volutamente provocatorio, Johnstone le domandò: «Qual è, secondo lei, la serie che conta?»
La risposta della Herrera non lo stupì.
«Stando ai numeri, la Emirates Series, temo. Lei, però, si riferisce alla Golden League, immagino. Dopo sei anni passati in Giappone, mi sono goduta le mie quattro stagioni di Golden League. Dopo ho fatto qualche comparsa, partecipando a tre edizioni del Gran Premio del Messico e a due del Gran Premio del Brasile, pace all’anima loro. Ho all’attivo quattro secondi posti e due terzi posti. Forse le sembrerà strano, ma è un curriculum di tutto rispetto, considerando che non ho mai corso per una scuderia di primissima fascia.»
Johnstone aggiunse: «E nemmeno per quella di suo padre.»
Dalia puntualizzò: «Non è mai stato un mio interesse.»
«Suo fratello, però, l’ha fatto.»
«Sì, Mitch l’ha fatto... e ha fatto bene» concluse Dalia, guardandolo negli occhi, «Dato che è stato l’ultimo che è riuscito a vincere il titolo con i nostri colori. Si è trovato nel posto giusto al momento giusto. Io, a quell’epoca, stavo tracannando acqua di rose a intervalli regolari di due o tre settimane. Non si può dire che non fossi nel posto giusto al momento giusto. Abituarsi al sapore del waard non è stato così difficile.»
«Ciò a cui non si abituerà facilmente» la provocò Johnstone, «è l’inattività. Ha ancora tanti anni di carriera davanti. Appendere il casco al chiodo è stato il suo più grande errore.»
In realtà la Herrera non aveva mai annunciato ufficialmente il proprio ritiro dalle competizioni. Al termine della stagione americana, pochi mesi prima, aveva dichiarato che nelle gare disputate dopo il periodo di convalescenza non si era mai sentita a proprio agio e che aveva scelto di lasciare in via definitiva la Indy Challenge, ma nessuno si era illuso che non si sarebbe lasciata tentare dalle proposte di riconciliazione del titolare del Team Vanilla.
Dalia, infatti, fece un mezzo sorriso.
«Chi le dice che rimarrò inattiva?»
«L’intuito.»
«Senza offesa, credo che il suo intuito la stia ingannando. Ho dei progetti per il futuro.»
Era giunto il momento di uscire allo scoperto e di sbatterle in faccia la realtà.
«Anch’io ho dei progetti per il futuro. Se lei ne facesse parte, sarebbe un bene per entrambi... sempre ammesso che non abbia davvero intenzione di ricominciare a inseguire bottiglie di acqua di rose!»

I capelli ramati di Grace erano inzuppati d’acqua.
Koji non poté trattenere una risata, quando le arrivò alle spalle.
Grace sussultò.
«Che cosa ci fai qua?»
«La vera domanda è un’altra» ribatté Koji. «Che cosa ci facevi tu, all’esterno, nel bel mezzo del temporale?»
Grace si voltò e lo fulminò con lo sguardo.
«Informavo la stampa che, nonostante la tua meravigliosa idea di andare a stamparti contro il muretto uscendo dai box, eri convintissimo di riuscire a tornare in macchina prima della fine della giornata.»
Koji sospirò.
«Purtroppo non è accaduto.»
«Purtroppo, invece, è accaduto che hai fatto l’ennesima cazzata, quindi...»
Koji interruppe le lamentele sul nascere.
«Per cortesia, Grace, non farmi la predica anche tu. Mitch è incazzato, Anders è incazzato, tutti i meccanici sono incazzati...»
«E hanno ragione di esserlo» replicò Grace. «Oggi hai fatto un errore da dilettante.»
Koji si sforzò di cambiare argomento.
«Com’è andata con Dalia e Mister Delirium?»
«Non troppo bene, temo. Dalia è già tornata in albergo da ore e, per quanto ne so, si sta dando da fare per anticipare il volo.»
«Quindi la mia vecchia rivale non si unirà a noi il prossimo anno» ipotizzò Koji. «È un vero peccato. Averla come terzo pilota sarebbe stato un grande affare per il team.»
Grace ridacchiò.
«Il magico potere della gnocca.»
«Ma quale potere della gnocca!» sbottò Koji. «Lo sai che mi piacciono solo giapponesi... o al massimo, ma proprio a sforzarmi, le coreane. Le occidentali non sono belle...» Ridacchiò. «A parte qualche rara eccezione. Anche certe australiane sono carine.»
Grace non gli diede la soddisfazione di dimostrargli di essersi accorta che parlava proprio di lei, anche se Koji era sicuro che l’avesse intuito.
Proseguì la narrazione degli eventi che Koji si era perso: «Mister Delirium sembrava parecchio insoddisfatto, oggi. Temo che dovrai rassegnarti: oggi non ti farà i complimenti nemmeno lui per la tua prestazione.»
«Sì, in effetti far registrare il terzo tempo non è stato un pessimo risultato.»
«Mi riferivo all’incidente.»
«Dubito che Mister Delirium potrebbe farmi i complimenti per questo.»
«Invece sono certa che, in un altro momento, potrebbe davvero farteli» obiettò Grace. «Magari è convinto che quello sia il tuo scopo.»
«Effettivamente creare l’incidente perfetto, quello destinato ad entrare negli annali del motorsport, è un’idea che mi alletta, ma ho ancora la capacità di rendermi conto che la Golden League non è un demolition derby... anche perché è quello che il nostro capo non fa altro che ripetermi.»
«E fa bene» confermò Grace. «Sei fortunato che Mitchell è paziente tanto quanto suo padre, se non di più, ed è convinto che tu abbia del potenziale.»
«Chiunque è convinto che io abbia del potenziale» puntualizzò Koji, «A condizione che abbia letto la mia biografia almeno una volta. Per chi non l’ha mai letta, invece, io sono il solito maledetto sfasciacarrozze nipponico venuto a rubare il volante a qualche pilota più talentuoso, o roba del genere. Sui social network dicono questo di me.»
Grace scosse la testa, sospirando.
«Non mi dire che leggi ancora i social network.»
«Tutti lo fanno.»
«Sì, tutti lo fanno, ma nessuno li prende più sul serio. Al giorno d’oggi la gente sta sui social network per cazzeggiare, non certo per informarsi o per informare seriamente.»
«Quindi i vari #YoshimotoSeiUnoScarso!!!!! e #ViaIGiapponesiDallaGoldenLeague non sono seri, secondo te?» scherzò Koji. «Mia cara Grace, tu non hai capito nulla della vera essenza del campionato. Hanno ragione loro, mica quelli che sostengono che, se sei sia il più giovane campione della Nippon Series sia il pilota più vincente di tutta la storia di quel campionato, forse è giusto darti un minimo di credito. Quattro titoli vinti, uno agli esordi, tre dopo il mio ritorno. Cosa sono, il nulla? Molta gente è convinta di sì.»
«Molta gente non ti perdona il modo in cui hai vinto il tuo primo titolo» gli ricordò Grace. «Gli incidenti che determinano l’esito del campionato non sono molto popolari, specie da quando vengono demonizzati anche se si tratta di episodi avvenuti senza la minima intenzione.»
«Avevo diciotto anni ed ero un ragazzino esuberante e desideroso di dimostrare quanto valevo» ci tenne a precisare Koji. «Era l’ultimo giro e dovevo dare il meglio di me, se volevo vincere il titolo e avere una chance di farmi notare. All’epoca la Nippon Series non era come adesso, che la conoscono tutti. Se non avessi cercato il sorpasso su Dalia, avrei perso il titolo. Mi è dispiaciuto di averla buttata fuori, ma non posso farci niente se, mentre io sono stato capace di portare la macchina al traguardo nonostante stessi perdendo pezzi, lei non ha potuto fare altrettanto. Cosa dovevo fare? Evitare di arrivare in fondo? Qualunque cosa ne pensino i miei detrattori, non sarebbe cambiato niente, dato che l’unico modo che Dalia aveva per vincere quel titolo era terminare la gara e terminarla davanti a me. Al giorno d’oggi, ripenso a com’è andata a finire, mi dico che è stato un bene: per assurdo, è quella la ragione per cui sono diventato quello che sono.»
«Ed è anche la ragione» ribatté Grace, «Per cui dovresti essere soddisfatto di non averla come compagna di squadra la prossima stagione.»
Koji alzò gli occhi al cielo.
«Sei sempre la solita esagerata. Dalia mi ha perdonato molto tempo fa.»
«Spiritualmente sì, non ho dubbi» replicò Grace, «Ma dovresti sapere meglio di me che, in pista, Dalia non perdona nessuno.»
«Allora la aspetto» concluse Koji, con un sorriso. «Se Johnstone dovesse riuscire a riportarla nella Golden League, mi divertirei moltissimo.»

***

Il weekend del Gran Premio di Abu Dhabi, terza prova della Emirates Series, era appena iniziato, ma a colpo d’occhio era evidente come le comunità virtuali si stessero già impegnando per andare off-topic.
“Meno male che il killer argentino non è in pista.”
“Già, per fortuna, altrimenti avrebbe fatto devastazioni anche nel deserto.”
“Uno come lui dovrebbe essere radiato da tutte le competizioni.”
“Magari succedesse. Va beh, dai, ci sentiamo tra un paio d’ore, dopo le prove libere. Speriamo che Dobson sfondi il culo a tutti.”
“Quello sfasciacarrozze di Dobson?! Ah ah, sei proprio da facepalm! In ogni caso avrà anche fatto dei danni, ma è sempre meglio che Aruya.”
“Dobson e Aruya non possono nemmeno stare all’interno della stessa frase. Dobson non rischia di uccidere qualcuno ogni volta in cui si mette al volante.”
“Io non ne sarei così sicuro.”
“Aruya non ha talento. È solo bello da vedere. Deve essere per quello che la piccola Harris è caduta ai suoi piedi e che adesso Aruya ha il futuro assicurato. Anch’io, se mi fossi fidanzato con la figlia di Ethan Harris, sarei arrivato così in alto.”
Gabriel Aruya, descritto come il potenziale pilota più scarso di tutti i tempi della storia della Golden League, nonostante non avesse ancora fatto il proprio debutto né l’inizio del campionato fosse esattamente imminente, fissava il monitor del computer portatile e non riusciva a credere ai propri occhi. Era inverosimile che gli utenti dei social network fossero in grado di essere così crudeli, nei confronti di chi si era macchiato di quelle che a loro apparivano come colpe infamanti, da scrivere commenti su di lui anche quando parlavano di una serie in cui non aveva mai gareggiato e nella quale, verosimilmente, non avrebbe mai mosso nemmeno un passo, e arrivando a infangare addirittura la sua vita privata.
Era vero, Gabriel non era privo di responsabilità e molte persone, in giro per il mondo, avevano senz’altro le loro buone ragioni per avercela con lui: soltanto due mesi prima aveva buttato fuori pista Shane Willis alla gara decisiva in Malesia, nella Silver League. Ciò che non riusciva a spiegarsi, però, era come mai l’incidente con il suo diretto avversario, invece di essere un argomento da tirare fuori soltanto durante discorsi contestualizzati, venisse citato a ogni soffio di vento, anche quando la discussione verteva su qualcosa di completamente diverso.
“Sembra che ogni ragione sia buona per insultarmi.”
Nemmeno lo stesso Willis se l’era presa così tanto da infamarlo pubblicamente, come sembravano fare invece la maggior parte degli appassionati di automobilismo. Tra l’altro molti di loro si limitavano a seguire la Golden League e, seppure conoscendo a malapena le dinamiche della Silver League, si prendevano il lusso di fare commenti in proposito, mentre magari proprio chi seguiva anche la Silver League preferiva tacere. Era proprio vero: il mondo funzionava al contrario.
“Neanche ci avessi guadagnato, con quella manovra.”
Invece di salvare la faccia facendosi portare via il titolo da Shane Willis, che forse se lo meritava più di lui, l’aveva di fatto consegnato a Caroline Parker, che a trentadue anni finalmente aveva coronato uno degli obiettivi che i campioni del futuro si ponevano quando di anni ne avevano al massimo venti.
A peggiorare la situazione, il suo sponsor storico sembrava sul punto di mollarlo e di mandare a monte il suo futuro. Tony, il suo manager, gli aveva assicurato che avrebbe fatto di tutto per convincere il presidente della Delirium Company, uno che di competizioni automobilistiche ne capiva perfino di meno rispetto ai ragazzini senza cervello che scrivevano scemenze sui social, a non lasciarli a piedi, ma tra Tony e Brett Johnstone era quest’ultimo a disporre di maggiore potere contrattuale.
Tra l’altro, anche in termini di automobilismo, Johnstone aveva già fatto il salto di qualità, siglando uno storico accordo come main sponsor del team Corujas Blancas, di cui probabilmente non conosceva altro se non il nome.
Per Gabriel, ormai, non era difficile fare due più due.
“A meno che non capiti un miracolo, il prossimo anno rimarrò a casa a commentare i gran premi sui social network.”
Il test che avrebbe dovuto effettuare a gennaio con il team Rayo Fatal non si sarebbe concretizzato e, senza uno sponsor importante come Delirium, tutto il suo futuro sarebbe stato definitivamente in bilico.
C’era chi lo vedeva in Giappone o negli Emirati... ma come avrebbe potuto arrivare in Giappone o negli Emirati senza uno sponsor? Inoltre addirittura i giapponesi lo vedevano come uno squilibrato che andava in giro per le piste attentando alle vite altrui, il che non doveva essere proprio positivo, specie considerando che in Giappone erano abituati ad avere a che fare con piloti non esattamente tranquilli e che perfino il loro eroe nazionale aveva vinto un titolo, da quelle parti, speronando un’avversaria verso la fine della gara decisiva.
“Anch’io, comunque, se avessi vinto, invece di perdere il titolo, sarei stato trattato in modo diverso.”
La storia del motorsport veniva scritta in funzione dei vincitori, era risaputo. Gabriel era certo che, se quel giorno di ottobre, dopo avere buttato fuori Shane, invece di insabbiarsi fosse riuscito a ripartire, la stessa manovra, che invece di allontanarlo dal titolo glielo avrebbe servito su un piatto d’argento, sarebbe stata considerata in modo diverso.
Invece no, il titolo se l’era portato a casa la Parker che, con tutto il rispetto possibile, era stata brava in quella stagione, ma in circostanze normali non avrebbe potuto competere né con lui né con Willis.
Subito dopo Caroline aveva pensato bene di approfittare dell’occasione e di procacciarsi un volante nella massima serie. Kathy Shelley, che da quando aveva appeso il casco al chiodo si era trasformata in una radical feminist del motorsport, le aveva fatto un’offerta che nessun pilota sano di mente avrebbe rifiutato, se non avesse avuto altre concrete possibilità.
Il team ribattezzato Pink Venus Racing Team, che era semifallito quando la Shelley lo aveva rilevato due anni prima, aveva fatto più strada di quanto gli addetti ai lavori pensassero. Rimaneva sempre un team anomalo, vista la convinzione di Kathy che uomini e donne non potessero coesistere, che l’aveva condotta a riempire la squadra di donne a tutti i livelli, ma avevano fatto strada, nell’ottica dei risultati. Durante il campionato da poco concluso Marcela Lopez Ferreira aveva conquistato punti ben tre volte, mentre la sua compagna di squadra, che a fine stagione aveva abbandonato la Golden League per intraprendere una nuova carriera negli Stati Uniti, si era classificata addirittura quarta in Gara 1 a Silverstone. Al suo posto sarebbe arrivata Caroline Parker, che già faceva proclami e che, in qualità di nuova adepta della Shelley, si auspicava di divenire la migliore donna *vivente* della storia della Golden League.
Il terzetto di piloti più chiacchierato della Golden League sarebbe stato completato da Irina Volkova ed era questo, più che l’estremismo della Shelley e la sua scarsa propensione ad accettare le scelte personali altrui, se tali scelte non corrispondevano ai principi che lei stessa declamava senza interruzione, a provocare a Gabriel una certa avversione per il Pink Venus Racing Team.
Kathy Shelley era già stata criticata in lungo e in largo per l’ingaggio di tre ragazze, ma la maggior parte delle critiche non andavano a centrare il punto. Gabriel riteneva Marcela più che adatta alla Golden League: l’aveva dimostrato, negli ultimi anni, rivelandosi sempre all’altezza delle monoposto che aveva guidato. Anche Caroline, per quanto tra i piloti della Silver League non fosse la *più* meritevole di un volante nella Golden League, difficilmente sarebbe stata inferiore alla compagna di squadra.
“Ma quella lumaca della Volkova che senso ha?”
Rimanere a piedi mentre Caroline faceva il salto di qualità, per Gabriel era tollerabile.
Rimanere a piedi mentre in Golden League c’era Irina, che Gabriel detestava profondamente perché aveva la pessima e frequentissima abitudine di sbarrare la strada a chi tentava di doppiarla, era un’idea che lo disturbava.
“Se Kathy voleva un’altra donna, avrebbe potuto ingaggiare Dalia Herrera.”
La ragazza - se si poteva definire tale una trentaseinne - che aveva fatto sognare il pubblico di Indianapolis prima di schiantarsi pochi metri prima del traguardo, dopo una stagione vissuta tra pochi alti e moltissimi bassi in Indy Challenge, era stata considerata da molti pronta ad appendere il casco al chiodo, ma aveva smentito tutti ritornando a vestire i colori del team Vanilla nella Emirates. Gabriel era convinto che quello fosse il primo passo per riavvicinarsi alla Golden League, dove avrebbe potuto ottenere ancora molto.
“E non solo nella Golden League.”
Gabriel si augurava con tutto se stesso che fosse un buon weekend, per lei. Magari, in quel caso, avrebbe avuto un po’ di tregua. I commenti si sarebbero concentrati su Dalia, lasciandolo finalmente da parte.
La Herrera sapeva essere un’ottima catalizzatrice di attenzione. Se solo fosse stata più convincente, quando pregava i suoi fantasmi di tornarsene sull’Indianapolis Motor Speedway invece di tormentarla anche nel Golfo Persico, nessuno le avrebbe più levato gli occhi di dosso, nemmeno quelli che ancora cercavano di ignorarla, che peraltro erano molto pochi.
Gabriel digitò l’indirizzo del sito ufficiale della Emirates, che trasmetteva le prove libere in streaming.
Erano già iniziate e perdersi l’inizio per rimanere a leggere accuse contro di lui non era stata una buona idea.
Quando il video si fu caricato, Gabriel guardò l’elenco dei tempi. Il cronometro parlava chiaro: fino a quel momento Dalia Herrera non si era fatta molto notare.
Chissà, forse le cose sarebbero cambiate nel corso del weekend.

-2gg 1h 30'
Quello che accadeva alla fine di ogni sessione di prove libere non variava molto, da un circuito all’altro: in ogni angolo Dalia trovava flash di macchine fotografiche e giornalisti in agguato, pronti a sbarrarle la strada per implorarla di rilasciare qualche dichiarazione.
Non poteva biasimarli: il team Vanilla sembrava avere fatto il colpo del secolo, tornando a ingaggiarla quando la sua carriera sembrava ormai definitivamente terminata. Sebbene non avesse mai annunciato definitivamente di volere chiudere una volta per tutte con le competizioni, era quello il messaggio passato in tutto il mondo dopo quel sesto posto a Fontana che, oltre a mettere definitivamente fine alla sua carriera negli Stati Uniti, le aveva anche restituito un minimo di speranza.
Se solo la stampa avesse saputo che c’era anche qualcos’altro che bolliva in pentola, la situazione sarebbe addirittura peggiorata. Per il momento il peggio che aveva udito oscillava tra il banalissimo “pensi che recupererai la tua credibilità riuscendo a vincere una gara nel corso della stagione?” al pessimo “credi che, se il progetto di Kathy Shelley dovesse rivelarsi fallimentare, tu stessa, in quanto donna, ne risulteresti svantaggiata?”.
I giornalisti sapevano essere seccanti, soprattutto quando non si limitavano a parlare della situazione relativa al gran premio corrente, ma dopo diciotto anni di gare internazionali, o comunque popolari a livello internazionale seppure facenti parte di serie locali, Dalia aveva imparato ad arginare il problema.
Fece un sorriso al più vicino, un tale di mezza età che lavorava per la televisione britannica, che l’aveva puntata ed era già pronto a piazzarle un microfono davanti alla bocca.
«Allora, Dalia, come la vedi per questo weekend?»
«Bene.»
«In Bahrein e a Dubai, però, hai faticato.»
«Sì, ho faticato» convenne Dalia, memore del settimo posto rimediato sul circuito di Al Sahkir e del rovinoso ritiro avvenuto nella successiva occasione. «Questo, però, non significa che io debba faticare anche qui a Yas o tra tre settimane a Losail.»
Il giornalista annuì, con aria soddisfatta.
«Quindi sei più determinata che mai.»
«Certo che lo sono.»
«Ritorni dopo una stagione di assenza e dopo avere trascorso molto tempo negli Stati Uniti. Che differenza c’è tra l’Indy Challenge e l’Emirates Series?»
Era una domanda seria? In tal caso meritava una risposta seria; una di quelle che avrebbe potuto fornire a Mister Delirium, per esempio.
«Qui si gira a destra molto più spesso... oh, e nello specifico, su questo circuito, c’è anche il rischio di perdersi all’uscita dalla pitlane.»
Il giornalista decise di stare allo scherzo.
«Quindi, se non dovessi perderti all’uscita della pitlane, a che cosa punti? Al podio?»
«Sì, certo» confermò Dalia. «Sulla carta, io punto sempre al podio. Purtroppo non è sempre facile come potrebbe sembrare.»
«Ora veniamo al punto dolente. Karl Dobson ti ha molto criticata dopo l’incidente a Dubai. Secondo lui, se non te la senti più di gareggiare, faresti meglio a ritirarti. Come rispondi alle sue accuse?»
«È meglio che non lo dica, te lo assicuro» ribatté Dalia. «Al massimo posso suggerirgli di andarsene a casa a coltivare kiwi, come penso che facciano dalle sue parti. Per il resto non ho altro da aggiungere, se non che Dobson farebbe meglio a badare a sé, ora che la fortuna sta girando dalla sua parte, invece di continuare a preoccuparsi di ciò che non lo riguarda.»
Salutato il giornalista con un ennesimo sorriso di circostanza, Dalia si allontanò, diretta verso il motorhome del team Vanilla.
Le era giunta voce che Brett Johnstone la stesse aspettando, ma quel rumour si rivelò inesatto: Mister Delirium aveva altri affari di cui occuparsi, quel giorno, e il suo arrivo era slittato al giorno della gara.
Claudia osservò, non appena rimasero sole: «Non pensavo che fossi così desiderosa di vederlo. Sei proprio così ansiosa di dirgli di no per l’ennesima volta?»
Dalia alzò le spalle, fingendo indifferenza.
Sapeva che la sua personal trainer non l’avrebbe seguita, se avesse scelto di ritornare nella Golden League. Già da tempo era smaniosa di tornare negli Stati Uniti, quindi Dalia non le aveva ancora comunicato che, a breve, le loro strade si sarebbero separate.
«Non è questione di ansia. Anche se non voglio gareggiare per Corujas Blancas, è pur sempre la squadra della mia famiglia. Devo difendere i miei interessi, non credi?»
«Sì, certo» confermò Claudia, «Ma non vorrei che Johnstone ti convincesse a cambiare idea. Tu non c’entri niente con la Golden League.»
Dalia decise di non ribattere.
“Cosa può capirne lei?”
Non aveva senso contraddire Claudia, da sempre convinta che la Golden League fosse una serie destinata a fallire e a chiudere, ma soprattutto convinta che sarebbero tornate negli States, dove Dalia avrebbe accettato un’offerta - un paio di team erano davvero interessati a lei, nonostante tutto - per rientrare nella Indy Challenge.

-1gg 0h 35'
Prendere parte alla conferenza stampa post-qualifiche era una soddisfazione che Dalia ricordava a malapena.
Il suo terzo tempo, nella qualifica del gran premio di Abu Dhabi, l’aveva riportata a una realtà che fino a quel momento le era sembrata dimenticata.
Anders aveva ottenuto la pole position, dimostrando che la squadra nella quale si era accasato per il campionato 20**/20** aveva fatto passi da gigante rispetto all’anno precedente e che poteva lottare per il titolo contro il Vega Emirates Team. Ciò era molto soddisfacente per Dalia, ma sembrava esserlo di meno per Karl Dobson, che nell’intervista era apparso alquanto disturbato dall’essersi dovuto accontentare della seconda posizione, attribuendo la responsabilità a chiunque non avesse concrete possibilità di controbattere. Aveva parlato a lungo di “vetture lente” che l’avevano ostacolato mentre faceva registrare quello che avrebbe dovuto essere il miglior tempo, senza però scendere nei dettagli.
Era tipico del suo stile, Dalia non se ne sorprendeva.
Anzi, ciò di cui era più opportuno stupirsi era che Dobson non avesse ancora fatto qualcuna delle sue stupide allusioni.
Il momento arrivò quando, finalmente, a microfoni spenti, poté dare il meglio di sé.
Si erano appena alzati in piedi, quando osservò: «Sei tornata a casa, alla fine.»
Dalia lo guardò storto.
«Cosa vuoi dire?»
«È stato su questo circuito che hai ottenuto il tu primo podio, nel 200*. Non mi sorprende che proprio qui tu ti sia decisa a concludere qualcosa di sensato.»
Dalia distolse lo sguardo.
«L’ho sempre detto, per me un circuito vale un altro. Il fatto di essere salita sul podio proprio qui, quando ho lasciato la Golden League per la Emirates, è irrilevante.»
«Non hai lasciato la Golden League» puntualizzò Karl. «Semplicemente nessuno ti ha più voluta. Del resto chi...»
Dalia lo interruppe, al fine di ricordargli: «Ho preso parte ad altri gran premi, dopo il 200*.»
«Sì, occasionalmente» confermò Karl, «A scopo promozionale, al volante di macchine che un pilota di un certo livello non avrebbe mai accettato di guidare.»
«Ho ottenuto risultati apprezzabili.»
«Non sono stati sufficienti per garantirti un ingaggio a tempo pieno.»
Dalia tornò ad alzare gli occhi.
«Chi ti dice che fosse quello che desideravo?»
Sentì una mano che le si posava su una spalla.
Subito dopo udì la voce di Anders.
In portoghese, le domandò se tutto andasse bene.
«Sì» confermò Dalia.
Anders si allontanò.
La lasciò sola.
Karl Dobson, su cui Dalia puntava ancora lo sguardo, osservò: «Nessuno, al posto tuo, l’avrebbe desiderato. Posso capirti, se desideravi tagliare i ponti una volta per tutte con la Golden League. Posso capire anche il fatto che tu non abbia mai cercato di accaparrarti nemmeno un posto come riserva nella squadra dei tuoi genitori.»
Dalia rabbrividì.
Sapeva dove Karl volesse andare a parare.
Sapeva che Karl detestava anche lei, perché non aveva fatto nulla, molti anni prima, per impedire il disastro provocato da una stupida guerra tra team di primissima fascia e team che, all’epoca, erano destinati a inseguire.
Non era il solo a scaricare su di lei almeno parte del biasimo.
“Se solo sapesse che anch’io mi sento colpevole come tutti gli altri.”
Voltò le spalle al rivale.
«Buona fortuna per la gara, Dobson.»
«Buona fortuna anche a te» ribatté Karl. «Spero che domani ci incontreremo sul podio.»
«Anch’io. Mi piacerebbe buttarti giù.»
Karl accennò una risata.
«Piacerebbe anche a me.»
Dalia tornò a girarsi di scatto.
«Come fai?»
Karl Dobson la fissò, aggrottando le sopracciglia.
«A fare cosa?»
«A ridere e a scherzare così come se niente fosse dopo quello che hai sottinteso.»
«Io non ho sottinteso niente» replicò Karl. «Sappiamo entrambi come funzionano le cose. La vita va avanti. Dobbiamo sforzarci di farla andare avanti, nonostante tutto. È quello che ho imparato a mie spese. È da anni che sto qui, come un esiliato, sperando di riavere la mia chance... quella che avrei potuto avere senza quella maledetta campagna mediatica secondo cui meritavo di essere definitivamente radiato, quella che avrei potuto avere senza...» Dobson si interruppe. «Lasciamo perdere. È inutile piangere sul latte versato e sui giochi di potere di tuo padre e di tutti quegli altri che non erano capaci di accettare una sconfitta, al punto di dare contro a noi e al team Phoenix su qualsiasi cosa, anche quelle che nulla avevano a che vedere con i risultati! Se la Golden League ha iniziato ad andare allo sfascio, è anche per colpa vostra.»
«La Golden League stava già andando allo sfascio» precisò Dalia. «Se gli sponsor non investono, non c’è molto da fare per...»
Karl Dobson non la lasciò finire.
«Se gli sponsor non investono... Beh, certo, naturalmente ti aspetti che vengano a investire proprio nel campionato con la peggiore reputazione. Sei proprio la degna figlia di tuo padre, nonostante non sia stato lui a concepirti. Certe caratteristiche vanno oltre la genetica. O forse il tossico che tua madre si portava a letto prima di conoscere tuo padre era anche lui uno come voi. Per fortuna certe persone scelgono di danneggiare soltanto se stesse conficcandosi una siringa in un braccio, mentre c’è chi invece crea un impero e lo utilizza per generare distruzione intorno a sé.»
Dalia sospirò.
«Non ti pare di esagerare, adesso?»
«Sì, forse sto esagerando» ammise Dobson, «Ma il fatto che una persona sia morta, che la mia carriera nella Golden League sia andata a puttane, che sia accaduta la stessa cosa anche a te e ad Anders e che quella che era la massima serie di automobilismo a livello mondiale oggi sia in crisi nera non ti pare una ragione sufficiente per esagerare?»
Dalia non ebbe la forza di ribattere.
Per quanto Karl Dobson fosse uno stronzo che la odiava, non poteva negare che, a modo suo, avesse ragione.

-1h 35'
Erano passate settimane dall’ultima volta in cui si erano incontrati, ma Brett Johnstone sembrava perfettamente in grado di riconoscerla, nonostante l’outfit fosse molto diverso.
«È un piacere rivederla, Dalia.»
Dalia fece un mezzo sorriso e non poté fare a meno di chiedersi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui era riuscita a sorridere: non tanto, ma non l’aveva più fatto dopo la conversazione del giorno precedente con Karl Dobson e le sembrava che fosse già trascorsa una vita.
«Il piacere» replicò, con fermezza, «è tutto mio.»
Per una volta era vero, perché quel giorno avrebbe richiesto a Johnstone l’unica condizione che le premeva davvero.
Il titolare della Delirium Company le ricordò: «Abbiamo qualcosa di piuttosto serio di cui parlare. Ha valutato la mia proposta?»
Dalia non poté fare a meno di scoccargli un’occhiata gelida.
«Mi rendo conto che la sua posizione privilegiata le permette di venire a raggiungermi in questo momento, ma non funziona esattamente così. Ho una gara da disputare.»
«Già. Buona fortuna, Dalia. Io credo in lei.»
«Mi fa piacere.»
«Farà molto più piacere a me vederla sul podio.»
«Prima di salirci, dovrò conquistarmelo» gli ricordò Dalia. «Non mi basta schioccare le dita per ottenere un risultato.»
«Nemmeno a me» ribatté Johnstone. «Ambisco a tutt’altro genere di risultati, ma anch’io devo appigliarmi a tutto il mio talento per ottenere ciò che voglio... Immagino che abbia capito a che cosa mi sto riferendo.»
«Forse sì, forse no» scherzò Dalia. «Ne riparliamo dopo la gara, va bene?»
Johnstone alzò gli occhi al cielo.
«Va bene.»
La lasciò sola e, in quel momento, Dalia ebbe la certezza di potere chiedere al magnate ciò che desiderava. Aveva molto ascendente su di lui, non per quello che era, ma per ciò che simboleggiava. La voleva fortemente nel team e sarebbe stato disposto ad accettare un piccolo compromesso.

+0h 00' 01''
Accadde tutto in fretta.
Le luci rosse si spensero.
Anders partì dritto come avrebbe dovuto.
Karl Dobson non fece altrettanto.
Da quel poco che Dalia comprese, gli bastò un attimo per finire fuori pista.
Dalia passò oltre, con la speranza di non ritrovarselo davanti mai più, per tutto il resto del weekend, e senza sapere che andava incontro a una delusione.

+1h 25' 23''
Nello specchietto, Dalia vide la sagoma di colore blu elettrico.
Proprio come aveva fatto il suo compagno di squadra prima di lui, Karl si stava avvicinando a vista d’occhio.
Via radio il suo ingegnere la pregava di incrementare l’andatura, per conservare almeno la terza posizione.
«E come pensi che possa fare?» sbottò Dalia. «Le gomme sono ormai andate!»
Anticipare la sosta era stata una pessima idea.

+1h 34' 37''
Dobson si era accodato e Dalia si era illusa.
Dal box le avevano comunicato che anche i tempi del suo avversario si erano alzati e che, con tutta probabilità, anche lui era ormai in difficoltà nel gestire le gomme.
“Invece quel bastardo stava solo aspettando il momento più opportuno per portare a termine l’attacco finale.”
Aveva scelto l’ultima curva, superandola quasi sulla linea del traguardo: il gap, tra le loro vetture, doveva essere a ridosso del record della Emirates Series, anche se in realtà nessuno si era mai preoccupato di stilare una classifica dei distacchi che non riguardassero vincitori e secondi classificati.
Dalia trattenne un’imprecazione.
Non aveva senso imprecare, non le avrebbe restituito la posizione perduta.
Inoltre, indirettamente, Karl Dobson le aveva quasi fatto un favore.

+1h 44'
Scovare Brett Johnstone non fu particolarmente difficile.
Sussultò, nel vederla, e Dalia si rese conto che non si aspettava che il loro incontro fosse così imminente.
«In questo momento» lo informò, «Dovrei andare a raccontare la mia versione dei fatti alla stampa. Ho pensato, però, che ci fossero questioni più preoccupanti di cui occuparmi.»
Johnstone aggrottò le sopracciglia.
«E se dopo qualcuno le chiedesse che fine aveva fatto?»
«Vorrà dire che mi inventerò di essere stata colpita da un attacco di diarrea fulminante» ribatté Dalia. «Ero in bagno. Le va bene come versione?»
«Non è a me che deve andare bene.»
«Giusto, quindi non perdiamo tempo. Andiamo in un luogo tranquillo. Le ruberò solo cinque minuti... il tempo di andare in bagno, più o meno. Mi preme soprattutto mettere le mani avanti su qualcosa di piuttosto urgente.»
«Qualcosa di che tipo, se non sono indiscreto?» Dal tono di voce, Johnstone appariva meno sicuro del solito. «Non mi può anticipare qualcosa?»
Dalia pronunciò quel nome.
«Gabriel Aruya.»
Come se gli avesse chiesto una definizione, Johnstone declamò: «Pilota giovane e promettente, ma con un’elevata propensione all’errore. Probabilità di debutto imminente in Golden League: molto alte, se non fosse che rischia di perdere il proprio sponsor da un giorno all’altro.»
«Esatto» confermò Dalia, «E mi risulta che il suo sponsor sia la Delirium Company.»
«Per ora. Credo che la Delirium Company dovrebbe investire i propri fondi in qualcosa di più concreto di un demolitore di automobili.»
«Quel demolitore di automobili metterà la testa a posto» replicò Dalia, aggiungendo, dopo una breve pausa: «Prima o poi.»
Johnstone spalancò gli occhi.
«Mi sorprende sentirglielo dire.»
«Oh, ora ho capito» dedusse Dalia. «Si aspettava che io le dicessi che potrei prendere in considerazione l’idea di rientrare nella Golden League a condizione che Aruya ne rimanga lontano.»
«Mi sarei stupito se avesse preso così a cuore la questione, ma non vedevo alternative.»
«Allora venga con me in un posto in cui possiamo parlare liberamente» ribadì Dalia, «E capirà che ho in mente qualcosa di molto diverso.»

***

Quando Gabriel sentì il cellulare che squillava, pensò all’inizio della fine.
Quando vide il nome di Tony sul display, si preparò moralmente a ricevere la peggiore delle notizie e al probabile addio imminente al mondo del motorsport.
Gabriel deglutì a fatica, prima di rispondere.
Bastò un attimo perché l’incubo si trasformasse in un sogno.
Le parole di Tony gli parvero lontane, ma perfettamente comprensibili.
«È quasi fatta.»
«Vuoi dire che...»
«Voglio dire che ho appena finito di parlare con Brett Johnstone» confermò Tony, «E che dopo lunghe e accurate riflessioni ha capito che tu sei una figura chiave per la Delirium Company... Il che, tradotto, significa essenzialmente che sei un fesso che finisce sempre in giro per i prati, ma che per questa ragione viene inquadrato e fotografato, mettendo in mostra il suo marchio. So che non era il tuo sogno d’infanzia, ma è pur sempre qualcosa, no? Non prenderti impegni per i prossimi mesi, perché a Valencia c’è qualcuno che potrebbe essere interessato a te.»
I sogni, tuttavia, non erano mai completamente limpidi e cristallini.
«Come sei riuscito a fargli cambiare idea?»
«Non è merito mio» mise in chiaro Tony. «Johnstone si è limitato a informarmi di avere preso la decisione di continuare a supportare la tua carriera e di spingere per il tuo approdo al team Rayo Fatal. Non mi ha detto *come* abbia preso questa decisione o *chi* l’abbia consigliato.»
«In pratica» osservò Gabriel, «è come se stessimo vendendo l’anima al diavolo senza essere in grado di riconoscerlo se lo vediamo senza le corna.»
«Sì, è più o meno così» convenne Tony, «Ma quando il prezzo è buono poco importa chi sia l’acquirente.»


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Milly Sunshine