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domenica 8 agosto 2021

Il Delirio dell'Arcobaleno: blog novel - Puntata n.5

Istanbul Park - andiamo avanti con la quinta puntata, ambientata ai tempi del GP di Turchia, un doppio evento nei cui dintorni abbiamo la possibilità di conoscere meglio vari piloti della Golden League.
Ringraziando chi mi ha seguita finora e chi continuerà a seguirmi nei prossimi episodi, chiudo così questa settimana, in attesa di parlare di veri eventi motoristici. Per quanto riguarda DDA, buona lettura. *-*


La leadership del Team Corujas Blancas nella classifica delle squadre, che aveva fatto tanto scalpore dopo la fine del doppio Gran Premio di Spagna, si era volatilizzata a metà del sabato pomeriggio di Istanbul.
Non solo il primato della squadra era sparito nel nulla, divenendo un ricordo lontano, ma il sistema delle terze vetture era apparso, in quella prima giornata di gara, quasi come fallimentare, nonostante sulla carta fosse stata una buona idea per avere una griglia di partenza più ricca e per non stroncare la carriera di tanti piloti promettenti.
Dalia era ancora convinta, dopo il termine del fine settimana, che si era concluso ormai da diversi giorni, che si trattasse di una scelta positiva. Per quanto la riguardava, avrebbe permesso a tutti e ventiquattro i piloti di gareggiare, senza un sistema di prequalifiche che stroncasse sempre chi si trovava nella posizione meno privilegiata (Reyes del Team Athena aveva ottenuto l’ultimo tempo, mentre il penultimo l’aveva fatto segnare Ruggeri, nella prima apparizione in pista della Scuderia Moretti, con una vettura bianca, quasi completamente priva di sponsor) e senza qualifiche che mettessero fuori gioco altri due concorrenti (erano state di nuovo le stesse squadre quelle che avevano annaspato nei bassifondi e, se da un lato tutti avevano accolto senza problemi l’eliminazione di Santos del Team Athena, quella di Anders Ramirez aveva suscitato un certo scalpore), ma purtroppo quando era stato stilato il regolamento nessuno aveva chiesto il suo parere.
Il grosso problema, comunque, rimaneva un altro: con tre Phoenix e tre Vega in pista e punti assegnati soltanto ai primi sette classificati, in assenza di intoppi il massimo risultato a cui un pilota di un'altra squadra potesse ambire era una settima posizione in gara.
In Gara 1 in Turchia non c’erano stati intoppi: Novak aveva vinto, scattando dalla pole position e staccando tutti di parecchi secondi, perfino il compagno di squadra Willis, salito sul secondo gradino di un podio sul quale aveva fatto la propria comparsa anche Karl Dobson, che aveva messo a tacere, almeno per mezza giornata, le voci che criticavano la sua scelta di rientrare nella Golden League e la scelta della Vega di ingaggiarlo. A prendersela con lui, per quella mezza giornata, erano stati soltanto i tifosi accaniti del team Phoenix, delusi dal fatto che Dobson avesse superato Suarez nelle fasi finali della gara, impedendo un podio tutto Phoenix, o i sostenitori di Nyman e Gomez, delusi dal fatto che i piloti di punta del Team Vega avessero dovuto accontentarsi di un quinto e un sesto posto.
Il team Corujas Blancas, apparentemente in piena forma, altro non era stato che la terza forza in pista: il risultato era stato un misero punto conquistato da Ethan, mentre Dalia ancora una volta era rimasta a secco, nonostante il minimo gap che la separava dal compagno di squadra. Era andata peggio a Yoshimoto, che aveva finito per fare a sportellate con un’altra vettura nelle retrovie, ma sorprendentemente non era stato al centro dell’attenzione, in quanto c’erano questioni più urgenti di cui le voci parlanti avevano preferito preoccuparsi: “che senso ha seguire la gara di domani, quando sarà identica a questa?”, sembravano chiedersi, certi che il dominio di Phoenix e Vega continuasse anche per tutta la domenica.
Non solo: almeno la metà dei piloti presenti in pista venivano bollati, non tanto dai media quanto dagli “opinionisti del web”, che declamavano pareri non richiesti sui social network, come inutili e non abbastanza preparati per permanere nella Golden League. A sorpresa il vincitore di Gara 2 in Spagna e secondo classificato in Gara 1 in Turchia era uno di questi. I commenti non si sprecavano: c’era chi sosteneva che, se si era fatto buttare fuori pista da Aruya proprio quando aveva in mano la vittoria del campionato in Silver League, non c’era da sorprendersi che in Gara 1 fosse stato “estremamente deludente e sempre lontano da Novak”.
«Che idiozia» borbottò Dalia.
Jacques si girò a guardarla.
«Come dici?»
«Niente, lascia stare, pensavo ad alta voce.»
«In effetti» ammise Jacques, «Ti vedo un po’ pensierosa.»
Nonostante non avesse pronunciato quelle parole con un’intonazione particolarmente critica, Dalia si rese conto che non era molto soddisfatto.
Era la prima volta che Jacques la invitava a casa sua e tutto ciò che lei riusciva a fare era stare affacciata al balcone, dal quale si poteva ammirare il porto, a pensare a quanto i tifosi della domenica fossero stati ingiusti nei confronti di Shane Willis.
«Scusa. Devo sembrarti un po’ persa.»
«Già.»
«Mi dispiace. Prima stavamo parlando di...»
Jacques la interruppe: «Lascia perdere. Stavamo parlando solo di una mia ipotesi. A volte mi rendo conto che continuare a stare qui non è esattamente un’ottima idea. Non avrei dovuto invitarti per mettermi a lamentarmi.»
«Non c’è problema» gli assicurò Dalia. «Pensavo a Shane.»
Jacques spalancò gli occhi.
«Oh...»
«La cosa ti stupisce?»
«Diciamo che non me lo aspettavo. Temevo di averti messo in testa qualche pensiero deprimente. Tu, invece, stai pensando soltanto», Jacques accennò una risata, «A uno che vince a causa dei suoi colpi di culo, rendendo il campionato falsato.»
Dalia rise.
«Non era Novak, quello?»
«Era Novak» convenne Jacques, «Ma ha rotto il motore in Gara 2, quindi non è andato molto lontano.»

+1h 22'
Alla fine cercare di risparmiare la macchina per portarla almeno al traguardo non era servito a niente.
Erik lo sapeva.
L’aveva sempre saputo, fin dal momento in cui era sceso in pista per le qualifiche di quella mattina.
Tutta la squadra lo sapeva.
Il giorno precedente l’affidabilità l’aveva graziato, dandogli la possibilità di portare a termine la sua personale opera d’arte, ma era giunto il momento in cui non era stato possibile ripetersi.
Gara 1 era stata stupenda.
Gli era apparso tutto così facile, come se la strada gli fosse stata spianata davanti.
La gara del sabato all’Istanbul Park era una di quelle gare che capitano raramente, nella carriera di un pilota, che sono destinate ad essere ricordate dall’intera comunità degli appassionati di automobilismo e che iniziano a capitare sempre meno di frequente quando si arriva a un punto di non ritorno.
Il punto di non ritorno, nel suo caso, si chiamava Shane Willis.
Gli restavano nove giri da percorrere ed era verosimile ipotizzare che, a differenza sua, Willis non andasse incontro ad alcun intoppo.
“Così” realizzò Erik, “la gente dirà o che sono un bollito, o che Willis ruba vittorie ad avversari più validi o che la squadra ha sabotato me e Juan per farlo vincere.”
Nessuna di quelle tre versioni corrispondeva a realtà, ovviamente, ma Erik Novak non si aspettava che i tifosi mainstream potessero andare oltre alle menzogne che raccontavano a loro stessi perché erano incapaci di accettare una realtà che, di fatto, non condizionava le loro esistenze neppure minimamente, se non a livello spirituale.
Era lui quello che doveva subire le conseguenze di un ritiro dovuto all’affidabilità, non certo i suoi sostenitori; quelli che si dichiaravano suoi fan accaniti fino alla morte, ma che lo sarebbero stati soltanto fintanto che fosse stato un vincente e che soprattutto avrebbero smesso di etichettarlo come “vincente” se fosse incappato in un guasto a fine stagione, quando in assenza di quel guasto avrebbe potuto lottare per un campionato che avrebbe potuto essere più aperto del previsto, nonostante quel giorno le Vega non si ritrovassero nella migliore condizione.

+1h 25'
“Come siamo caduti in basso.”
Un tempo, rifletté Karl, guardando sul monitor Erik Novak mentre rientrava ai box a piedi, un commissario di percorso in motorino sarebbe accorso immediatamente per condurre il campione del mondo in carica nella pitlane, invece di lasciarlo a camminare per - a giudicare dalla posizione in cui Novak aveva dovuto parcheggiare in una via di fuga - approssimativamente un chilometro.
Le stagioni si susseguivano.
Gli anni passavano.
Tutto cambiava.
Ciò che non cambiava era l’idiozia di certi piloti, quelli come Juan Suarez, per esempio.
Non che Karl avesse mai avuto a che fare con lui, prima del rientro nella Golden League, ma di tipi del genere ce n’erano tanti. Era uno di quelli che andavano in giro a sbandierare ai quattro venti che il compito di un pilota fosse infilarsi sempre ovunque ci fosse uno spazio, ma che non avevano la capacità di valutare se lo spazio ci fosse o meno.
La gara di Karl era finita poco dopo essere iniziata grazie a una delle manovre poco intelligenti del terzo pilota del team Phoenix.
Non era il solo ad avere affrontato mille peripezie, quel giorno.
Gomez si era ritirato verso la metà gara, a causa del cedimento di una sospensione.
Nyman, invece, aveva forato e perso quasi un giro, che aveva parzialmente recuperato fino a risalire in quarta posizione, staccato di parecchio dai piloti che lo precedevano, ciascuno dei quali stava facendo gara a sé.
Avrebbero continuato a fare gara a sé, se non fosse stato per Caroline Parker.
Andò a sbattere quando mancavano poco più di sette giri per completare la distanza e la sagoma rosa della Pink Venus si fermò nel bel mezzo del rettilineo principale.
Fu schivata dalle due vetture che sopraggiungevano, quella di Erik Novak, leader della gara, e quella di Irina Volkova, undicesima con un giro di distacco e, in quel momento, unica pilota del team di Kathy Shelley ancora in gara.
Era ormai chiaro che, almeno per quel weekend, la Pink Venus non avrebbe visto nemmeno l’ombra di un punto: con il ritiro della Parker sarebbe risalita al decimo posto, ovvero lontana anni luce dalla settima posizione.

«Oh, giusto» convenne Dalia, «Avevo dimenticato che, a seconda della situazione, il male della società non è rappresentato sempre dallo stesso soggetto. Quindi diamo pure tutta la colpa a Shane: il fatto che Caroline Parker sia andata a sbattere da sola è una prova. C’è un complotto pro-Shane e Caroline ha il compito di contrastare il complotto stesso.»
Jacques ridacchiò.
«Questi discorsi faccio fatica a seguirli.»
«Se ti può consolare, non capisco nemmeno io, che questo discorso lo sto facendo. So solo che la fantasia di certe persone non ha limiti.»
«A proposito di fantasia» osservò Jacques, guardando oltre il balcone, «Sto iniziando a capire. Caroline è andata a sbattere, è entrata la safety car e i distacchi si sono azzerati, tra i piloti a pieni giri. Quindi Willis, che in quel momento aveva oltre trenta secondi di vantaggio, ci ha rimesso. È stato un tentativo di sottrargli ciò che lui aveva sottratto illegittimamente a... mhm... Aspetta, c’è un dettaglio che mi sfugge: Shane ha rubato la vittoria... ma a chi?»
«Quello non ha importanza, quello che conta è mettere insieme una bella teoria del complotto e servirla così, su un piatto d’argento, ai lettori di Golden League Racing. Perfino Grace ha scritto un articolo sui guasti che hanno condizionato il weekend di Erik. Ho letto qualche commento ed erano terribili.» Dalia si prese la testa tra le mani. «Davvero, non capisco come si possa avere talmente tanta immaginazione. Non mi riferisco a Grace, chiaramente. Per quanto il suo pezzo non fosse neanche così atroce, pubblicandolo su un sito palesemente pro-Vega ha alimentato un fuoco che non aspettava altro che di essere acceso.» Per abbandonare i pensieri negativi la soluzione migliore era sempre - o quasi - fare un po’ di ironia, per cui Dalia non si lasciò sfuggire l’occasione, dato che lei e Jacques avevano un discorso in sospeso. «Tornando a noi, chi c’era secondo? Nientemeno che Gabriel. Se non è una prova questa...»
«Giusto!» ribatté Jacques. «I nemici storici di Shane Willis coalizzati contro di lui, per la salvezza della Golden League.»
«Sono due benefattori, non credi?»
«Certo.»
«Tornando seri» riprese Dalia, «Gabriel ha fatto una gran gara. Al restart ha addirittura tentato il sorpasso su Shane.»
«Ha tentato il sorpasso su Shane» la corresse Jacques, «E, seppure la manovra sia fallita, le due vetture non si sono minimamente sfiorate.»
Dalia sospirò.
«Povero Gabriel. Ormai tutti lo danno già per spacciato. Ha fatto degli errori, in passato, di cui alcuni anche belli grossi, ma non è uno sfasciacarrozze come lo descrivono. Anzi, finora ha portato a casa gli unici punti della sua squadra e non puoi negare che si tratti di un traguardo molto importante. Non l’ho mai visto così infervorato come nel dopogara. Non è stato il solo, anche Shane mi sembrava in preda all’estasi più totale. Due weekend, quattro gare, due vittorie e il secondo posto di ieri. Credo che entrambi facciano parte del futuro della Golden League e, per quanto possa sembrare strano, sono certa che in molti condividano il mio parere.»
«Molti, infatti, l’hanno detto» precisò Jacques.
«Non vale. Quei due hanno chiuso primo e secondo. Chiunque vinca o arrivi sul podio viene esaltato. Salire sul carro dei vincitori è molto facile, non solo da fuori, ma anche da dentro. Il giorno in cui Gabriel farà una cazzata - perché è sicuro che, per quanto stia mettendo la testa a posto, prima o poi ne farà una - rivedremo il solito accanimento e le solite menzioni al fatto che abbia rovinato il campionato di Willis, l’anno scorso... tutto questo solo perché lamentarsi al posto di Willis è l’hobby preferito di una grossa fetta della popolazione mondiale, a quanto pare.»
Jacques non parve particolarmente disturbato da quello che evidentemente accettava come un destino insindacabile.
«La gente parla e parlerà sempre. Qualunque cosa fa discutere, perfino il terzo posto di Salvador Cruz. C’è ancora chi dice che uno come lui non dovrebbe stare nella Golden League.»
«Già.» Dalia sorrise, divertita. «Non ho mai avuto una particolare confidenza con Arden, nonostante ci siano persone disposte ad affermare che ho subito abusi sessuali da lui, la prima volta in cui sono salita sul podio, ma mi è giunta voce che uno dei detrattori di Cruz era proprio lui. Credo che gli sia bruciato parecchio il culo, quando il bambino prodigio che gli hanno appioppato come compagno di squadra di serie B è andato sul podio a scolarsi la bottiglia di champagne che George stava già pregustando. Sempre voci di corridoio sostengono che ci sia stata un po’ di polemica tra lui e la squadra. Si aspettava che Salvador lo facesse passare.»
«Salvador Cruz ha solo diciannove anni» replicò Jacques, «Ma penso che sia già grande abbastanza per usare il cervello.»
«Eccome se lo è. Arden, invece, nonostante abbia solo trentanove anni, sta già iniziando a perdere colpi.»
«Solo?»
«Come dici?»
«Sei tu che hai detto che Arden ha solo trentanove anni. Ti ricordo che, ufficialmente, è il nonno della Golden League.»
«E io ti ricordo che ho soltanto due anni in meno di lui. Se lui è il nonno della Golden League, io potrei candidarmi come nonna. Eppure non mi sento affatto vecchia. Ci sono stati piloti che hanno ottenuto risultati di un certo livello anche oltre i quarant’anni. Mio padre, tra l’altro, è stato uno di quelli. Chissà, magari condivido una parte del suo DNA.»
«Credevo ti avesse adottata.»
«Parlavo del DNA spirituale, se posso concedermi questa licenza poetica.»
«Certo che puoi concedertela» le assicurò Jacques, «Almeno finché parli con me. Se dovessi farlo pubblicamente, però, cerca di ricordarti che non tutti potrebbero condividere la tua teoria secondo la quale esisterebbe un “DNA spirituale”.»
«Magari non esisterà chimicamente, ma io sento che io e mio padre abbiamo davvero qualcosa in comune, anche se il sangue che ci scorre nelle vene è diverso» replicò Dalia. «Nonostante i tempi stiano cambiando, nonostante ci siano Willis e Aruya che sono il futuro e ci sia addirittura Salvador che ha diciotto anni in meno di me e si prende il lusso di salire sul podio mentre io devo inseguire un misero punto, sento di avere ancora qualcosa da dire e sento che, se mio padre fosse al posto mio, nella mia stessa situazione, avrebbe analoghe sensazioni.»

+1h 41'
Una sagoma colorata come l’arcobaleno passò alla sua destra, in pieno rettilineo.
Solo quando vide Ethan davanti a sé, Dalia riprese a spingere.
Sapeva qual era il suo dovere.
Sapeva che erano altri quelli che contavano.
Koji era in quinta posizione, alle spalle delle due Sparks.
Ethan era stato dietro di lei, fino a pochi istanti prima, ma per lui due punti anziché uno avrebbero potuto fare la differenza.
Dalia l’aveva saputo fin dal primo momento, quando aveva accettato di vestire i colori del team Corujas Blancas.
Ethan Harris veniva prima di lei.
Koji Yoshimoto veniva prima di lei.
Un giorno forse sarebbe riuscita ad avere un momento di gloria, ma quel giorno non era ancora arrivato e non poteva che essere ancora lontano.
Qualunque giorno non fosse quella domenica era lontano, in quel momento.
Anche il momento in cui la bandiera a scacchi avrebbe sancito definitivamente la sua settima posizione appariva distante, nonostante dall’esterno potesse apparire temporalmente molto vicino.
Mancava un giro.
Mancava un ultimo giro.

+1h 43'
Dalia attraversò la linea del traguardo.
Fu come se per lei si aprisse un nuovo mondo, almeno per qualche istante.
La conquista del primo punto stagionale era un piccolo passo avanti, rispetto a ciò che aveva vissuto fino a quel momento: era la promessa che faceva a se stessa di un campionato ancora tutto da vivere.
C’erano ancora otto gran premi, tre dei quali prevedevano doppia gara.
C’erano ancora tante occasioni di soddisfazioni future.
L’idea di avere dovuto cedere a Ethan Harris quel poco di più che avrebbe potuto prendersi il lusso di ottenere la disturbava - l’avrebbe disturbata anche dovere cedere una posizione a Koji, ma il fatto che si fosse trattato proprio di Ethan le rendeva il tutto ancora meno digeribile - ma doveva farci l’abitudine o, almeno, tollerarla per quel giorno.
Era stata un’ottima gara, dopotutto.
Era stata una gara che aveva superato le premesse iniziali, vista la posizione di partenza. In qualifica aveva fatto registrare il tredicesimo tempo, risultato tutt’altro che positivo, e non poteva essere altro che felice, se le aspettative erano state superate.

+1h 51'
«Dalia.»
Era la voce di Ethan, dietro di lei.
Era l’ultima voce che Dalia avrebbe desiderato sentire, ma non aveva importanza.
Doveva dimenticare.
Doveva dimenticare quali fossero gli ultimi momenti che lei e Harris avevano condiviso, molti anni prima.
Nonostante fosse già capitato, nel corso degli anni, che si ritrovassero a gareggiare negli stessi campionati, avevano sempre fatto il possibile per stare lontani l’uno dall’altra.
Non avevano più avuto nulla in comune, dopo i giorni di attesa per quella che avrebbe dovuto essere la fine di un brillante campionato: Ernesto Ramirez contro Kit Harris, due “pensionati” a un passo dal vincere il titolo.
Dalia si girò molto lentamente, cercando di rimuovere le immagini di un passato che, di tanto in tanto, continuava ad assalirla.
«Dimmi.»
«È stata una bella gara.» Il tono di Ethan era piatto, come se anche lui, in sua presenza, avesse difficoltà nell’esprimersi. «Non ce l’avrei mai fatta ad arrivare così in alto, senza di te.»
Così in alto?
Ethan aveva davvero pronunciato quelle parole?
“Siamo davvero messi male” si disse Dalia, “Se siamo, almeno a parole, la terza forza del campionato e una sesta posizione significa arrivare in alto.”
Cercò di sdrammatizzare.
«Questa volta Koji è arrivato più in alto di tutti e due.»
Ethan le strizzò un occhio.
«Pensa che non ha nemmeno avuto bisogno di spiccare il volo per riuscirci.»
Risero entrambi e per Dalia fu una sorpresa.
Per quanto scherzare alle spalle di Koji Yoshimoto sulla sua propensione all’incidente potesse essere poco edificante, condividere un attimo di leggerezza con Ethan Harris la fece sentire davvero bene.
Dopo la risata, seguì qualche istante di silenzio, che fu spezzato dalla voce di Ethan.
«Sempre ammesso che Koji non faccia casini per i fatti suoi, a Montecarlo ce lo mettiamo dietro entrambi, okay?»
Dalia si sforzò di sorridere.
«Okay.»
Il solo sentire parlare di Montecarlo le provocava un senso di nausea.
Ethan parve intuirlo, da come le si avvicinò.
«Andrà tutto bene, vedrai.»
Dalia annuì.
«Lo so.»
In realtà non lo sapeva affatto, ma aveva un disperato bisogno di convincersi del contrario.
«Se ti va di parlare qualcosa» aggiunse Ethan, «Sai dove trovarmi.»
Addirittura?
Era davvero messa così male?
Recuperò in fretta la propria freddezza.
«Non ho niente di cui parlare, non preoccuparti.» Corresse un po’ il tiro, per non essere troppo scortese nei confronti di chi, senza averne l’obbligo morale, si era offerto di darle il proprio sostegno. «...A meno che, ovviamente, tu non voglia dirmi come la pensi a proposito del secondo posto di Gabriel.»
«Gabriel?» La voce di Ethan si era fatta di nuovo piatta e priva di intonazione. «Ah, già, Gabriel ha davvero chiuso in seconda posizione. Mi fa piacere per lui, ma un po’ meno per noi, dato che questo weekend il podio l’abbiamo visto soltanto col binocolo. Chissà se Shane avrà piacere di ritrovarselo accanto.»

+1h 54'
Shane Willis gettò da parte l’asciugamano con cui si era appena asciugato il sudore.
Si sistemò un po’ i capelli, poi infilò il cappellino.
A proposito, quei cappellini rossi con il marchio dello sponsor ufficiale dell’evento erano inguardabili.
Non vedeva l’ora che arrivasse il momento degli inni nazionali durante la cerimonia di premiazione, in modo da liberarsene almeno per qualche istante.
Quelli erano i pensieri futili che gli passavano per la testa dopo avere conquistato la seconda vittoria in quattro gare.
Era andata benissimo.
Era andata molto meglio del previsto.
Con la vittoria si era portato a ventotto punti nella classifica generale, nove in più di Hugo Nyman che si trovava in seconda posizione.
Se quello era un sogno, Shane non voleva svegliarsi.
Doveva avere l’aria molto persa, dal momento che Gabriel gli agitò una mano davanti agli occhi.
«Ti sei incantato a riflettere sul senso della vita?»
Shane ridacchiò.
«No, mi sono incantato a riflettere su quanto sia bello arrivare sul traguardo davanti a te, come accadeva ai vecchi tempi.»
«Già, peccato che non ci sia Caroline insieme a noi.»
«In realtà non sempre c’era Caroline, insieme a noi, l’anno scorso.»
«A volte c’era solo lei» ammise Gabriel, «Mentre noi avevamo già parcheggiato da un’ora in mezzo alla polvere.»
«Oggi è toccato a lei quel destino» ribatté Shane, «E la cosa non mi dispiace particolarmente.» Abbassò la voce. «Però è meglio parlare piano, di certi argomenti. Ci sono ragazzini innocenti, in giro, che non devono sentire.»
«Anche noi potremmo essere ragazzini innocenti, se Salvador lo è.»
Da un certo punto di vista era vero. I vent’anni di Gabriel e i ventuno dello stesso Shane non erano molti di più dei diciannove di Cruz.
Era altrettanto vero, però, che l’età mentale poteva essere influenzata anche dalle esperienze.
«Ragazzini sì, ma innocenti non direi» concluse. «I ragazzini innocenti non passano il tempo prendendosi a ruotate incuranti del fatto che la Parker possa vincere un titolo.»

***

«I tempi sono cambiati» aggiunse Dalia, «Ma credo che, in gran parte, sia tutta apparenza. Le persone invecchiano. Alcune lasciano, altre più giovani arrivano. È così dappertutto, non solo nel motorsport. È una storia che, con poche differenze, si ripete. I campionati di automobilismo, dopotutto, altro non sono che una metafora della vita.»
«A proposito di metafore» osservò Jacques, «Te la cavi bene con le parole.»
«Forse, quando mi ritirerò, scriverò un’autobiografia» gli confidò Dalia. «Dico sul serio, ci ho pensato, a volte. Vorrei, però, fare qualcosa di diverso dalle solite autobiografie. Non penso a un libro. Penso piuttosto di pubblicarla, in modo completamente gratuito, sul mio sito web, magari a puntate. Potrebbe essere utile per gli appassionati. Potrebbero capire chi sono davvero... sempre ammesso che loro ci riescano.»
Jacques la guardò negli occhi.
«Potrebbero capire chi sei davvero, dici. Ma tu, chi sei, in realtà?»
Dalia ricambiò lo sguardo.
«Non lo so più, e non lo so da molto tempo, ormai. So solo che, giorno dopo giorno, potrei avvicinarmi o allontanarmi dalla verità. Questo, a volte, mi spaventa.»

***

Da anni quelle che un tempo erano viste come serie di minore rilievo cercavano di attirare consensi grazie alla vicinanza con gli appassionati. Il modo migliore era l’utilizzo del web e finalmente la Golden League stava iniziando a capirlo.
La lunga intervista che avevano pubblicato, in formato video, lasciava intendere chiaramente quale fosse il target al quale volevano aspirare.
Il commento immediato di Daphne riassunse perfettamente ciò che anche Gabriel aveva pensato.
«Sbaglio o ai piani alti c'è chi è ancora convinto che la presenza femminile nella Golden League faccia ancora un certo effetto?»
«Pare di sì» non poté fare altro che ammettere Gabriel. «Non si può negare che la situazione sia molto migliorata e che al giorno d'oggi faccia meno scalpore di un tempo, ma il fatto che abbiano invitato Dalia e le tre ragazze del Team Pink Venus a un evento in cui - questo è sicuro come la morte - saranno state forzate a parlare del loro ruolo come donne nel motorsport, prima ancora che come piloti, la dice molto lunga.»
«Forse» azzardò Daphne, «Per certi versi è ancora così. Noi facciamo parlare sempre e comunque, nel bene e nel male. Se un uomo avesse avuto una carriera analoga a quella di Dalia Herrera nessuno si sognerebbe di definirlo né "uno dei migliori piloti al mondo" né "uno dei peggiori". Sarebbe un pilota di livello medio-alto, che ha ottenuto risultati generalmente molto buoni ovunque, ma non uno dei migliori o dei peggiori al mondo. A proposito della Herrera, invece, si sentono dire entrambe le cose.»
«Questa è la conferma indiretta che la Golden League ha scelto l'approccio giusto per attirare fan poco obiettivi» decretò Gabriel. «Non è necessariamente un male, perché anche quelli fanno numero.»
Daphne sospirò.
«Farei volentieri a meno di certa gente.»
«Credo che tutti, in tutte le circostanze, farebbero volentieri a meno di un po' di persone, ma non è sempre possibile. Non possiamo tenerci solo i migliori. Dobbiamo sperare che i peggiori migliorino, almeno quelli non troppo deliranti. Se poi non dovesse accadere, pazienza. Quello che conta è non essere dimenticati. La Golden League ha decenni di storia, non può andare definitivamente in declino perché non è capace di fare autopromozione.»
Daphne non replicò.
Entrambi, ormai, erano concentrate sul video, che stavano guardando sul computer portatile di Gabriel.
Dalia Herrera, Caroline Parker, Marcela Lopez Ferreira e Irina Volkova erano sedute in quell'ordine l'una accanto all'altra e indossavano indumenti con gli sponsor delle rispettive squadre di appartenenza.
L'intervista era tenuta da un opinionista della televisione britannica, noto per la propria competenza e la propria imparzialità.
C'erano elevate possibilità, almeno, che l'intervista non fosse tropo imbarazzante per le quattro ragazze.
«Oggi siamo qui con quattro nomi importanti del motorsport, le quattro donne che competono nella Golden League in questa stagione. La presenza femminile è stata abbastanza ricorrente nell'ultimo ventennio, ma quest'anno, per la prima volta, ben quattro donne gareggiano in questo campionato. Si tratta di un record assoluto. Inoltre una di loro detiene un importante record assoluto: Caroline Parker è stata la prima ragazza a vincere il campionato nella Silver League.»
A Gabriel sfuggì una risata.
«Questa è una persecuzione!»
Anche Daphne rise.
«Lo credo anch'io.»
«Spero almeno di non venire menzionato esplicitamente.»
«Non accadrà» gli assicurò Daphne. «La Parker è troppo piena di sé per potere dedicare spazio anche agli altri.»
«In tal caso» ribatté Gabriel, «Potrebbe non essere un male.»
«Effettivamente non lo sarebbe» convenne Daphne. «Diciamo che per il momento puoi stare tranquillo, me lo sento.»
La sua sensazione si rivelò esatta.
Caroline proferì infatti in una lunga spiegazione su come vincere la Silver League avesse cambiato la sua vita e fosse stata la spinta definitiva che l'aveva condotta verso la Golden League.
«Se non avessi vinto il campionato l'anno scorso» concluse, «Con tutta probabilità adesso non sarei dove sono ora. Probabilmente sarei ancora nella Silver League, o magari avrei scelto un'altra strada. È piacevole, comunque, avere ritrovato alcuni dei miei rivali del passato. Io e Karl Dobson ci siamo conosciuti molto tempo fa, per esempio.» Caroline accennò un sorriso. «Non che rivedere Karl Dobson fosse il mio principale obiettivo di vita, ma se non altro abbiamo parlato un po', di tanto in tanto, quest'anno. Ha fatto bene a entrambi.»

***

Era passato tanto tempo dall'ultima volta in cui si erano incontrati.
Ne era passato ancora di più dall'ultima volta in cui avevano avuto qualcosa a che fare l'uno con l'altra.
Caroline non conservava un buon ricordo di quei momenti, vista l'innata capacità di Karl Dobson di rigirare ogni situazione a proprio vantaggio, almeno finché si trattava di rapporti interpersonali. Non era altrettanto preparato ad affrontare altre sfide, purtroppo per lui: il fatto che la sua prima carriera nella Golden League fosse durata poco era conseguenza diretta del non essere stato capace di far valere le proprie ragioni, quando si trattava di difendersi da accuse infamanti ed esagerate.
Caroline e Karl concordavano soltanto su due cose: la prima, che la loro breve e travagliata relazione, di cui nulla era ma trapelato, fosse stato un errore per entrambi, la seconda, che i fatti del Gran Premio del Brasile 200* fossero stati determinati da una serie di fattori e che a determinarne la gravità non fosse stato il coinvolgimento di Dobson, bensì l'ottusità di gran parte delle squadre, dei piloti e di tutto il resto degli addetti ai lavori.
La prima volta in cui si incrociarono nel paddock, Caroline fu la prima a fare al collega un cenno di saluto.
Pensava che lui avrebbe ricambiato, andando per la propria strada, ma non fu così.
Karl si fermò.
La raggiunse.
Intorno a loro, nel giro di pochi metri, non c’era nessuno.
Karl fu il primo a parlare.
«Sono felice che tu sia qua.»
«Anch'io sono, per qualche verso, felice di rivederti.»
Karl fece un mezzo sorriso.
«Ne dubito.»
«Anch'io ne avrei dubitato» gli rivelò Caroline, «Ma adesso che ti ho rivisto tutte le mie certezze sono crollate.»
«Spero che questo non significhi che tu abbia di nuovo voglia di infilarti nel mio letto.»
Caroline si irrigidì.
«Queste battute sono davvero così necessarie?»
Karl alzò le spalle, con indifferenza.
«Non credo che ci sia mai stato qualcos'altro in comune, tra me e te.»
Caroline sbuffò.
«Già. Io comprendo l'esistenza del concetto di potere parlare con qualcuno senza volerlo rimorchiare a tutti i costi.»
Karl le strizzò un occhio.
«Allora deve essere una convinzione che hai maturato di recente.»
Caroline lo gelò con lo sguardo.
«Smettila di comportarti da coglione.»
«Okay, ricominciamo» si arrese Karl. «Ti ho detto che sono felice che tu sia qui, se non sbaglio. Intendevo dire che meriti di stare dove sei. Hai fatto una buona stagione, l'anno scorso, nella Silver League.»
«Buono a sapersi» replicò Caroline. «Nel tempo libero, ti sei messo finalmente a seguire la Silver League. Sbaglio o un paio d'anni fa hai affermato che vedere ragazzini che si prendono a sportellate non è la tua massima aspirazione e che, quando hai tempo per guardare qualche gara, di solito scegli campionati con piloti più maturi.»
«Sì, hai ragione, non sono un grande esperto di quello che accade nella Silver League, ma non sono totalmente ignorante in proposito. E poi tu non sei un ragazzino... Nemmeno una ragazzina, ormai.»
«Decisamente no» confermò Caroline. «Questa è la ragione per cui finalmente sono dove dovrei stare.»
«La penso così anch'io. È essenzialmente questa la ragione per cui sono felice di vederti qui. Non mi sei mancata particolarmente. Allo stesso modo non penso di essere mancato io a te.»
No, non le era mancato.
Karl Dobson non avrebbe mai potuto mancarle, anche se non l'avesse mai più incontrato per il resto della vita.
Allo stesso modo, non le era indifferente.
Karl aveva un impatto, seppure minimo, su di lei, ma Caroline non era in grado di dare un nome a quella sensazione, né sentiva il bisogno di etichettarla con un termine probabilmente più adatto a descrivere altro.
Per quel giorno lei e Karl non si dissero altro.
Si salutarono con un "ci vediamo presto" ed effettivamente quella formula si trasformò in realtà: il giorno seguente, durante le ore di test, ad un tratto si ritrovarono piuttosto vicini, in pista.
Karl si lamentò, in seguito, che Caroline l'aveva rallentato.
Caroline contestò le accuse, ma non ne parlarono a tu per tu: erano entrambi più focalizzati su ciò che doveva ancora venire, piuttosto che perdere tempo pensando a un episodio senza conseguenze destinato a cadere nel dimenticatoio.

***

«L’intervento di Caroline è stato abbastanza prevedibile» osservò Gabriel. «Dopotutto Caroline è abbastanza prevedibile, come persona.»
«A parte in pista» ribatté Daphne. «Ogni tanto fa qualche svarione, come l’altra volta all’Istanbul Park.»
«Quello svarione avrebbe potuto essermi utile» ammise Gabriel. «Quando la safety car ha annullato tutto il gap, ho creduto davvero che avrei potuto tentare l’impossibile per passare davanti a Shane.»
«Ci sei andato vicino, se non altro.»
«Non conta andarci vicino. Quello che conta sono i numeri, non le possibilità che non si sono verificate.»
Quella frase, per qualche verso, riassumeva la carriera di una delle ragazze che si apprestavano a rispondere alle domande dell’intervistatore: Irina Volkova. Gabriel non l’aveva mai apprezzata ed era stato piuttosto critico, quando il Team Pink Venus aveva annunciato il suo ingaggio, ma le riconosceva di non essere così terribile come veniva spesso descritta. Irina Volkova era una mediocre e, senza la sua immagine da ragazza acqua e sapone, forse non sarebbe andata molto lontano, ma non era la “peggiore di tutti i tempi”. Anzi, non c’era minimamente paragone tra lei e certi soggetti che in passato si erano davvero dimostrati come i “peggiori di tutti i tempi”. Non c’erano ragioni valide per cui la Volkova meritasse di stare nella massima serie quando c’erano piloti molto migliori che riuscivano a malapena a rimanere nella Silver League prima di essere messi da parte, ma allo stesso tempo, una volta che Irina c’era, non c’erano particolari ragioni per cui la sua presenza fosse davvero uno scandalo, come era stata definita in più occasioni. Irina Volkova non spiccava per velocità e non commetteva azioni che le permettessero di balzare agli onori delle cronache, ma allo stesso modo non si poteva dire che i suoi tempi, sul giro secco, fossero scandalosi, né che non fosse capace di tenere una vettura in pista e di portarla al traguardo, né che fosse un pericolo per i suoi avversari, a meno che questi non fossero talmente impressionati dalla caparbietà con cui la Volkova teneva dietro chi la stava doppiando al punto da commettere errori. Anche in tal caso, comunque, non c’era ragione per cui la principale responsabile dell’incapacità altrui di mantenere il controllo in un momento in cui il controllo era fondamentale fosse proprio Irina.
La russa fu, ovviamente, intervistata per ultima. Le fu dedicato uno spazio decisamente minore a quello riservato a Dalia Herrera e Marcela Lopez Ferreira.
Il turno di Dalia arrivò subito dopo quello di Caroline.
L’argomento clou fu, ovviamente, il suo approdo al team fondato molti anni prima da Ernesto Ramirez.
Le fu dedicato parecchio spazio, spazio che, quando si avviava verso la conclusione, le riservò una domanda indiretta a cui Dalia sembrava non troppo felice di rispondere.
«Non se ne è mai parlato molto, ma ci sono ragioni per credere che sia difficile, per te, lavorare fianco a fianco con Ethan Harris.»
Dalia abbassò subito lo sguardo.
Gabriel maledisse non solo colui che aveva pronunciato quelle parole - nonostante fosse una persona competente, quella era una vera caduta di stile - ma soprattutto chi aveva preso la decisione che quel pezzo non potesse essere tagliato.
Per fortuna Dalia si riprese subito e, a testa alta, affermò: «Non c’è ragione valida per cui crederlo.»
«Eppure i vostri rapporti erano piuttosto burrascosi, un tempo.»
Dalia scosse la testa.
«Certi dettagli, purtroppo, vengono ingigantiti. Non importa che si tratti di questioni sportive o di questioni private: ingigantirli è una pessima abitudine con cui dobbiamo confrontarci giorno dopo giorno. Non ci sono motivi per insinuare che i rapporti tra me e il mio compagno di squadra non siano buoni e, soprattutto, non ci sono motivi per affermarlo solo perché in passato si vociferava che ci fossero state situazioni poco piacevoli tra di noi.»
A sorpresa, Caroline intervenne: «Per quanto ne so, quelle “situazioni poco piacevoli” ci sono state davvero, non erano solo voci di corridoio.»
Ancora una volta, Dalia abbassò lo sguardo.
«Che stronza!» sbottò Daphne. «Marcela dice sempre che Caroline è un po’ fuori dagli schemi, ma io la definirei con ben altri termini.»
«Effettivamente da parte sua non è molto carino intromettersi.»
Perfino l’intervistatore parve imbarazzato.
Stava per riprendere la parola, in un improbabile tentativo di sistemare le cose.
Non ebbe il tempo di dire nulla.
Dalia Herrera se la cavava bene, quando si trattava di situazioni imbarazzanti, o almeno era quella l’impressione che dava.
«Frequentavo regolarmente Ethan Harris quando avevo una ventina d’anni in meno di quelli che ho ora. Sebbene mi ricordi molti dei momenti che abbiamo condiviso insieme, qualcosa è un po’ sfumato. Dovrei fare uno sforzo troppo grande e, con tutta probabilità, non caverei un ragno dal buco. Qualche discussione l’abbiamo avuta, ma non ricordo nulla di così terribile da rendere complicati i nostri rapporti al giorno d’oggi.»
Gabriel commentò: «Ottima risposta. A quanto pare ha spiazzato Caroline.»
«Già» gli fece eco Daphne, «Anche se credo che stia mentendo. Mio padre non mi ha mai parlato molto di lei, ma mi ha accennato che qualcosa è accaduto.»
«Avevano una relazione, molto tempo fa.»
«Lo so. Certe notizie sono di dominio pubblico. Lo sono sempre state. Per fortuna all’epoca erano entrambi sconosciuti abbastanza da non doversi nascondere come noi.»
«Un giorno la verità su di noi verrà alla luce» le ricordò Gabriel. «Non possiamo continuare a nasconderci per sempre. Prima o poi ci faremo avanti.»
«Dopo che mio padre si sarà ritirato. È imbarazzante che tu e lui corriate nello stesso campionato.»
«Se dobbiamo attendere il ritiro di tuo padre, allora, ci sarà molto da aspettare.»
Daphne rise.
«Temo di sì.»
Qualche istante più tardi si fece di nuovo seria.
«Non mi riferivo a questo, prima.»
Gabriel non comprese.
«A cosa?»
«Quando ho detto che è accaduto qualcosa tra mio padre e Dalia Herrera non mi riferivo al fatto che uscissero insieme, quando avevano più o meno la mia età. Dopo deve essere successo qualcos’altro, dopo la morte di mio nonno. Mio padre, per un certo periodo, deve essere stato convinto che la squadra avesse delle responsabilità. È per quello che si sono lasciati, lui e Dalia, credo.»

***

Alla commemorazione c’erano tutti.
C’era anche la nuova generazione dei Ramirez al completo, composta dalla sua ex fidanzata e dai suoi amici di un tempo.
Emanavano la loro aura di perfezione apparente.
Dalia indossava un abito nero.
Le stava malissimo.
In tuta era molto più bella, sempre ammesso che si potesse definire bella.
Un anno prima Ethan la considerava una sorta di dea della bellezza, oltre che la donna della sua vita.
Era stato un illuso.
Era sempre stato un illuso.
Per fortuna si era allontanato da lei e dalla sua famiglia prima che fosse troppo tardi.
Non aveva mai avuto bisogno di Dalia, in realtà. Era stato un idiota a iniziare una relazione con lei, ma dava la colpa all’età.
Per fortuna a quasi vent’anni aveva più buon gusto in fatto di ragazze di quanto ne avesse avuto quando ne aveva diciotto.
A Fontana aveva conosciuto una studentessa di giornalismo che svolgeva un tirocinio presso una rivista che si occupava di motori.
Si chiamava Phoebe.
Era molto carina.
A Ethan sarebbe piaciuto se avesse potuto accompagnarlo in Australia, ma lei era impegnata per lavoro e, in realtà, nemmeno lui se l’era sentita di proporglielo.
Phoebe, in fondo, non aveva mai conosciuto suo padre, se non per fama.
“E poi c’è Dalia.”
Non voleva che lei lo vedesse insieme a Phoebe.
Nonostante si fossero lasciati da ormai molti mesi, temeva che ci rimanesse male.
Il fatto che avesse delle parentele che Ethan aveva smesso di apprezzare non significava che fosse colpevole dei casini commessi da altri o che meritasse di essere accusata di azioni sulle quali non aveva mai avuto il benché minimo controllo.
“Tra l’altro non c’è nessuna prova.”
Diverse testate giornalistiche, anche di una certa importanza, avevano formulato ipotesi che avrebbero potuto avere senso.
Il fatto che Ethan fosse convinto della veridicità di tali ipotesi non voleva dire che potesse sbandierarlo ai quattro venti senza correre il rischio di essere denunciato per diffamazione.
Avrebbe dovuto smetterla di vedere complotti ovunque.
Avrebbe dovuto accettare la realtà, come avevano fatto tutti.
Suo padre era morto.
Non sarebbe tornato indietro dando credito alle speculazioni della stampa.
Non sarebbe tornato indietro andando da Dalia, Mitch e Anders per continuare la maledetta discussione di qualche mese prima.
Ethan non ricordava nemmeno esattamente cosa fosse accaduto. Lui e Dalia avevano bevuto tanto, quella sera. Probabilmente i fratellastri di lei avevano bevuto almeno tanto quanto loro, se non di più.
Ethan non si era trattenuto.
Aveva detto qualcosa di troppo.
La situazione era precipitata.
La serata era terminata con Dalia che gli urlava di non volere più avere niente a che fare con lui e con Ethan che replicava che per lui era un piacere che lei stessa se ne rendesse conto.
In seguito aveva pensato di richiamarla.
Non l’aveva fatto.
Non aveva alcuna ragione per farlo.
Si avvicinò comunque ai tre. Voleva salutarli in tono sprezzante, affinché si rendessero conto che, per lui, facevano parte della feccia del motorsport.
Anders reagì voltandogli le spalle e allontanandosi.
Contrariamente alle aspettative di Ethan, né Dalia né Mitch lo seguirono.
Dalia parve addirittura impietosita.
“Questo significa che devo apparirle come un pazzo ormai completamente fuori di testa.”
Ethan sapeva di non esserlo, ma il parere di Dalia su di lui non gli importava, o almeno voleva credere che non gliene importasse.
La sua ex gli domandò: «Come stai?»
Ethan fece un profondo respiro e attese qualche istante prima di rispondere.
«Bene» disse infine. «È stata una stagione molto buona per me, negli Stati Uniti.» Si rivolse a Mitch. «Anche a te è andata bene, mi è parso di capire.»
Mitch annuì.
«Non mi posso lamentare.»
«Tu, invece?» chiese Ethan, rivolto a Dalia. «Cos’è successo tra te e la squadra? Ho sentito che hai lasciato la Silver League.»
«Hai sentito bene» rispose Dalia, «Ma non è successo niente tra me e la squadra. Ho fatto altre scelte.»
«Pensavo che il tuo obiettivo fosse arrivare in Golden League.»
Dalia lo guardò negli occhi.
«Un giorno ci arriverò.»
Ethan ricambiò lo sguardo.
«Ci rivedremo, allora, prima o poi.»
Dalia aggrottò la fronte.
«Per caso la Indy Challenge rinuncerà alla sua stella?»
Appariva più sarcastica di quanto Ethan fosse disposto a tollerare.
«La stella della Indy Challenge farà le proprie scelte e le proprie valutazioni. Di certo, se dovessi ricevere una chiamata importante, ci penserei due volte prima di riattaccare... a condizione che a chiamarmi sia qualcuno che dispone di una qualità fondamentale: la rispettabilità. Purtroppo nella Golden League non sono tutti abbastanza rispettabili, per i miei gusti.»
Né Dalia né Mitch ebbero il coraggio di ribattere, dopo la sua affermazione.

***

Proprio come Dalia Herrera era brava a gestire le situazioni imbarazzanti, Caroline Parker era sfacciata abbastanza da riprovare a intromettersi subito dopo essere stata messa a tacere.
La situazione di calma durò molto poco e l’intervista alle quattro ragazze della Golden League rischiò di degenerare ancora una volta.
«Nonostante ora Ethan e Mitchell vadano così tanto d’accordo - o fingano, almeno - una volta anche i loro rapporti non erano buoni. Non puoi negarlo.»
«Non posso negarlo» ribatté Dalia, con prontezza, «Ma allo stesso modo tu non puoi negare che questi non siano fatti miei. Per quanto ne so, Ethan e mio fratello sono sempre stati amici, almeno per tutta l’epoca in cui entrambi hanno gareggiato nella Golden League.»
L’intervistatore, finalmente, decise che era giunto il momento di spegnere quello che avrebbe potuto divenire un divampante incendio, spostando l’attenzione su Marcela Lopez Ferreira e facendolo in maniera piuttosto professionale: niente accenni a polemiche passate, niente accenni ai gossip sul suo conto, soltanto domande strettamente connesse al campionato e qualche piccola curiosità, come ad esempio la ragione per cui, diversamente da molti altri piloti con problemi di vista, Marcela indossasse gli occhiali anche sotto al casco, invece di propendere per le lenti a contatto.
Fu clemente anche nei confronti di Irina, alla quale raramente era riservata clemenza.
«Questa stagione è iniziata male, con una mancata prequalificazione in Spagna. In Turchia, invece, hai dato una grande dimostrazione a chi aveva smesso di credere in te. Quali sono le tue sensazioni per il futuro, alla luce di quello che è successo a Istanbul?»
Daphne osservò: «Deve essere più o meno la milionesima volta in cui le chiedono la stessa cosa.»
Era vero, ma era innegabile che, in quella circostanza, la domanda fosse stata posta in maniera molto diversa: seppure la debacle spagnola fosse stata espressamente citata, erano state spese parole di incoraggiamento e, per certi versi, erano sottintesi dei complimenti per essere riuscita a non essere totalmente fallimentare.
Irina Volkova parve illuminarsi.
«L’Istanbul Park è una pista che mi è sempre piaciuta. Ho ottenuto risultati apprezzabili fin dai tempi della Iron League. Sono stata ovviamente soddisfatta di avere superato le prequalifiche e, il giorno successivo, di essermi qualificata. L’obiettivo è continuare su questa strada, riuscendo a completare le gare e, qualora le cose vadano molto bene, di cercare anche di racimolare qualche punto. Non sarà facile, ma sono concentrata e sicura di me.»
«Altra domanda, strettamente legata alle prequalifiche. Dato che riguarda soltanto te e Dalia, ma che tu sei l’unica che ne ha pagato le conseguenze, che cosa ne pensi di questo format?»
La risposta di Irina fu precisa e accurata.
«Secondo me l’attuale format delle prequalifiche va bene. C’è una sessione sola, al termine della quale vengono eliminati gli ultimi due. Ciò che non funziona sono le qualifiche, per i doppi appuntamenti: ci sono due sessioni, una per Gara 1 e l’altra per Gara 2, e i due piloti che non si qualificano per Gara 1 dovrebbero avere la possibilità di qualificarsi per la seconda gara, invece di essere automaticamente eliminati. Se le cose restano così, a questo punto si potrebbe partire per Gara 2 con l’ordine d’arrivo di Gara 1 o qualcosa del genere.»
Gabriel osservò: «Non è la sola a pensarlo.»
Erano state molte le critiche per quel dettaglio e a Montecarlo avrebbe dovuto esserci una riunione dei team per proporre una modifica in proposito.
Sul perché si fosse atteso fino a Montecarlo, quando fin dal primo momento erano emerse delle perplessità, a Gabriel non era ben chiaro.
Che la Golden League si stesse impegnando a occupare il Gran Premio di Monaco con altre questioni per dimenticare più facilmente?
I fatti dell’anno precedente erano ancora scolpiti bene nella memoria collettiva e il weekend imminente sarebbe stato molto duro per tutti.


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